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Omero, Iliade, canto XVI, vv. 1-19, trad. di Rosa Calzecchi Onesti

 

E Patroclo giunse da Achille pastore d'eserciti,

versando lacrime calde, come una polla acqua bruna,

che versa l'acqua scura da una roccia scoscesa.

Vedendolo n'ebbe pietà Achille glorioso, piede veloce,

e a lui si volse e gli disse parole fuggenti:

«Perché sei in pianto, Patroclo, come una bimba piccina,

che dietro la madre correndo, la forza a prenderla in braccio,

le afferra la veste, la tira mentre cammina,

la guarda piangendo per essere presa in braccio?

Simile a questa, Patroclo, spandi tenere lacrime;

forse annunci qualcosa ai Mirmìdoni o a me?

forse udisti tu solo qualche messaggio da Ftia?

Dicono che ancora vive Menezio, figlio d'Attore,

vive fra i Mirmìdoni l'Eacide Peleo,

i due che molto noi piangeremmo, se fossero morti.

Oppure hai pietà degli Argivi, come son massacrati

presso le concave navi per la loro arroganza?

Parla, non chiuderlo in cuore, che entrambi sappiamo».

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"Prima d’allora non avevo conosciuto che il deserto e le piste delle carovane. Quella mattina a Dorotea sentii che non c’era bene nella vita che non potessi aspettarmi. nel seguito degli anni i miei occhi sono tornati a contemplare le distese del deserto e le piste delle carovane; ma ora so che questa è solo una delle tante vie che mi si aprivano quella mattina a Dorotea”.

 

Nel mio bell'iPod ho la registrazione del mio maschione che me lo legge :-)

 

Italo Calvino, Le città invisibili

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Sempre dall'Iliade di Omero, canto VIII, vv. 27-34, trad. di Rosa Calzecchi Onesti

 

Disse così; e una nube di strazio, nera, l'avvolse.

con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa

se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello;

la cenere nera sporcò la tunica nettarea;

e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,

giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli.

 

e ancora canto VIII vv. 103-109, trad. di Vincenzo Monti

 

Con un forte sospir rispose Achille:

O madre mia, ben Giove a me compiacque

Ogni preghiera: ma di ciò qual dolce

Me ne procede, se il diletto amico,

Se Pátroclo è già spento? Io lo pregiava

Sovra tutti i compagni; io di me stesso

Al par l’amava, ahi lasso! e l’ho perduto.

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Mercante di Luce

Disse Siddharta "Che dovrei mai dirti, io, o venerabile? Forse questo, che tu cerchi troppo? Che tu pervieni a trovare per il troppo cercare?" "Come dunque?" chiese Govinda

"Quando qualcuno cerca, " rispose Siddharta "allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori da quella che cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, non possa assorbir nulla, in sé, perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser libero, restare aperto, non aver scopo. Tu, venerabile, sei forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi."

 

Siddharta - Hermann Hesse

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Che importa se il campo è perduto? Non tutto è perduto; la volontà indomabile, il disegno della vendetta, l'odio immortale e il coraggio di non sottomettersi mai, di non cedere: che altro significa non essere sconfitti? Una simile gloria mai la potranno estorcere da me nè la sua rabbia nè la sua potenza. Mi dovrei inchinare, implorare pietà con le ginocchia supplici, e forse deificare il potere che per paura di questo mio braccio dubitò fino a ieri del suo impero? Sarebbe davvero troppo basso e vergogna e ignominia peggiori della caduta; poichè per destino la forza divina e questa empirea sostanza non possono venire meno, e poichè l'esperienza di questo grande evento non ci rese più deboli nell'armi, e casomai più avanti in preveggenza, con maggiore speranza di successo ci possiamo risolvere a muovere con forza o con astuzia una guerra eterna e inconciliabile al nostro grande Nemico, che ora con gioia smodata trionfa e regna solo, tenendo il cielo nella sua tirannide.

 

John Milton-Paradiso perduto

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Forse, pensò, la radice d'ogni arte, e fors'anche d'ogni spirito, è la paura della morte. Noi la temiamo, abbiamo orrore della caducità, vediamo con tristezza i fiori appassire e le foglie cadere e sentiamo nel nostro cuore la certezza che anche noi siamo caduchi e presto avvizziremo. Se dunque come artisti creiamo figure o come pensatori cerchiamo leggi e formuliamo pensieri, lo facciamo per salvare qualche cosa della grande danza macabra, per stabilire qualche cosa che abbia una durata più lunga di noi stessi.

 

Hermann Hesse, Narciso e Boccadoro.

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Paul Verlaine, da: Parallèlement - Ces Passions, vv. 17-32.

 

La plénitude! Ils l'ont superlativement:

Baisers repus, gorgés, mains privilégiées

Dans la richesse des caresses repayées,

Et ce divin final anéantissement!

 

Comme ce sont les forts et les forts, l'habitude

De la force les rend invaincus au déduit.

Plantureux, savoureux, débordant, le déduit!

Je le crois bien qu'ils l'ont la pleine plénitude!

 

Et pour combler leurs voeux, chacun d'eux tour à tour

Fait l'action suprême, a la parfaite extase

- Tantôt la coupe ou la bouche et tantôt le vase -

Pâmé comme la nuit, fervent comme le jour.

 

Leurs beaux ébats sont grands et gais. Pas de ces crises:

Vapeurs, nerfs. Non, des jeux courageux, puis d'heureux

Bras las autour du cou, pour de moins langoureux

Qu'étroits sommeils à deux, tout coupés de reprises.

 

 

Queste Passioni, traduzione di Mauro Terzi

 

La pienezza! Costoro l’hanno superlativamente:

baci sazi, ingozzati, mani privilegiate

nella ricchezza delle carezze ripagate,

e questo divino finale annientamento!

 

Così sono i forti e i forti, l’abitudine

della forza li rende invitti al diletto.

Copioso, gustoso, debordante, il diletto!

Lo credo bene che loro l’abbiano, la piena pienezza!

 

E per esaudire i loro voti, ciascuno di loro, a turno,

compie l’azione suprema, ha la perfetta estasi

- talvolta la coppa o la bocca e talvolta il vaso -

estatico come la notte, fervente come il giorno.

 

I loro bei sollazzi sono grandi e gai. Niente crisi di quelle:

svenimenti, nervi. No: giochi coraggiosi, poi felici

braccia stanche attorno al collo, per meno languidi

che stretti sonni a due, tutti interrotti per ricominciare.

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Qualsiasi cosa, del resto, è una perdita e spreco di tempo: tranne fottere di gusto o creare qualcosa di buono o guarire o correr dietro a una specie di fantasma amore-felicità. tanto tutti finiamo nel mondezzaio della sconfitta: chiamala morte, chiamala errore. io non son bravo con le parole, direi però, dato che tutti ci s'adatta alle circostanze, che certe cose accrescono la tua esperienza, anche se magari non si tratta di saggezza è possibile peraltro che uno resti per tutta la vita nell'errore, vivendo in uno stato come d'intontimento o di paura. ne avrete viste, di queste facce. Io ho visto la mia.

 

Bukowski

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"... Non vogliate negar l'esperienza

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza

fatti non foste a viver come bruti

ma per seguir virtute e canoscenza"

 

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)
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"- Noi aspettiamo il compenso senor. -

- Quanto? - chiese Medardo, e si sarebbe detto che ridesse.

L'uomo con la treccia disse: - Voi sapete qual è il prezzo per il trasporto di un uomo in lettiga... -

Mio zio si sfilò una borsa dalla cintola e la gettò tintinnante ai piedi del portatore. Costui la soppesò appena ed esclamò: - Ma questo è molto meno della somma pattuita senor! -

Medardo, mentre il lembo gli sollevava il lembo del mantello, disse: - La metà -.

 

Italo Calvino - Il visconte dimezzato

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Tratto da "The Cattywampus", racconto breve di Borden Deal.

 

Sarei tornato nella valle e avrei detto, per fugare le loro paure, che avevo ucciso lo strano animale. Ma avrei anche detto che il suo corpo era finito nel fiume e non ero stato capace di identificarlo. Perché ora sapevo. L'umanità ha bisogno dei suoi animali strani, dei suoi miti, e di leggende e di favole, per oggettivare le paure dell'uomo fuori da sé, là dove si possono combattere con il coraggio e la fede.

Perché l'uomo è il più strano tra tutti gli animali.

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questa e' di un libro che sto leggendo in questi giorni

in realta' non credo sia il pezzo piu' significativo ne magari il piu' eccelso

ma in qualche modo mi ha colpito :\

 

"Una ragazza si butta dal quarto piano; lascia

pulita ed in ordine la cucina; e' pagata per questo.

Una signora, prima di gettarsi dalla tromba delle scale si toglie le scarpe

nuove e le lascia sul pianerettolo : perche' sciuparle?

Un'altra signora si spara nella vasca da bagno :

inutile sporcare i pavimenti.

Un soldato si uccide, gli trovano in tasca un biglietto :" signor capitano,

mi uccido e non so il perche',scusi il disturbo".

Cio' che commuove di queste uscite e' la delicatezza dei protagonisti,

che sfiora il ridicolo, nella presunzione di evitare un piccolo fastidio a quelli che restano.

Insomma : sono i migliori che se ne vanno"

 

(diario notturno_e. flaviano)

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"Dentro questo brutto guscio che è la mia testa, dentro questa gabbia che non mi piace, dovrò mostrarmi e andarmene in giro; attraverso questa griglia dovrò parlare, guardare, essere guardato, dentro questa pelle dovrò marcire. Il mio corpo è il luogo a cui sono condannato senza appello. Credo che, in fondo, sia contro di esso e come per cancellarlo che nascono tutte questa utopie. Il prestigio, la bellezza, la meraviglia dell'utopia, a che cosa sono dovuti? L'utopia è un luogo fuori da ogni luogo, ma è un luogo in cui io avrò un corpo senza corpo, un corpo bello, limpido, trasparente, luminoso, veloce, colossale nella potenza, infinito nella durata, sciolto, invisibile, protetto, sempre trasfigurato; ed è ben possibile che l'utopia prima, quella più impossibile da sradicare dal cuore degli uomini, sia proprio l'utopia di un corpo incorporeo."

(Michel Foucault - Utopie Eterotopie)

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"La morale di chi possiede bellezza è di potersi sottrarre a ogni dovere. La bellezza non ha tempo di assumersi le sue responsabilità ogni volta che si manifesti l'influenza della sua imprevedibile forza. La bellezza non ha tempo di pensare alla felicità. Ancor meno alla felicità degli altri... Ma è proprio per questo che la bellezza ha il potere di rendere felici chi ne muore tra atroci tormenti."

 

Yukio Mishima, Colori Proibiti

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Ettore e Andromaca alle porte Scee, Omero, Iliade, trad. Vincenzo Monti

Finito non avea queste parole

la guardïana, che veloce Ettorre

dalle soglie si spicca, e ripetendo

il già corso sentier, fende diritto

del grand'Ilio le piazze: ed alle Scee,

onde al campo è l'uscita, ecco d'incontro

Andromaca venirgli, illustre germe

d'Eezïone, abitator dell'alta

Ipoplaco selvosa, e de' Cilìci

dominator nell'ipoplacia Tebe.

Ei ricca di gran dote al grande Ettorre

diede a sposa costei ch'ivi allor corse

ad incontrarlo; e seco iva l'ancella

tra le braccia portando il pargoletto

unico figlio dell'eroe troiano,

bambin leggiadro come stella. Il padre

Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto

Astïanatte, perché il padre ei solo

era dell'alta Troia il difensore.

Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque.

Ma di gran pianto Andromaca bagnata

accostossi al marito, e per la mano

strignendolo, e per nome in dolce suono

chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!

il tuo valor ti perderà: nessuna

pietà del figlio né di me tu senti,

crudel, di me che vedova infelice

rimarrommi tra poco, perché tutti

di conserto gli Achei contro te solo

si scaglieranno a trucidarti intesi;

e a me fia meglio allor, se mi sei tolto,

l'andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!

ch'altro mi resta che perpetuo pianto?

Orba del padre io sono e della madre.

M'uccise il padre lo spietato Achille

il dì che de' Cilìci egli l'eccelsa

popolosa città Tebe distrusse:

m'uccise, io dico, Eezïon quel crudo;

ma dispogliarlo non osò, compreso

da divino terror. Quindi con tutte

l'armi sul rogo il corpo ne compose,

e un tumulo gli alzò cui di frondosi

olmi le figlie dell'Egìoco Giove

l'Oreadi pietose incoronaro.

Di ben sette fratelli iva superba

la mia casa. Di questi in un sol giorno

lo stesso figlio della Dea sospinse

l'anime a Pluto, e li trafisse in mezzo

alle mugghianti mandre ed alle gregge.

Della boscosa Ipoplaco reina

mi rimanea la madre. Il vincitore

coll'altre prede qua l'addusse, e poscia

per largo prezzo in libertà la pose.

Ma questa pure, ahimè! nelle paterne

stanze lo stral d'Artèmide trafisse.

Or mi resti tu solo, Ettore caro,

tu padre mio, tu madre, tu fratello,

tu florido marito. Abbi deh! dunque

di me pietade, e qui rimanti meco

a questa torre, né voler che sia

vedova la consorte, orfano il figlio.

Al caprifico i tuoi guerrieri aduna,

ove il nemico alla città scoperse

più agevole salita e più spedito

lo scalar delle mura. O che agli Achei

abbia mostro quel varco un indovino,

o che spinti ve gli abbia il proprio ardire,

questo ti basti che i più forti quivi

già fêr tre volte di valor periglio,

ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro

sire di Creta ed il fatal Tidìde.

Dolce consorte, le rispose Ettorre,

ciò tutto che dicesti a me pur anco

ange il pensier; ma de' Troiani io temo

fortemente lo spregio, e dell'altere

Troiane donne, se guerrier codardo

mi tenessi in disparte, e della pugna

evitassi i cimenti. Ah nol consente,

no, questo cor. Da lungo tempo appresi

ad esser forte, ed a volar tra' primi

negli acerbi conflitti alla tutela

della paterna gloria e della mia.

Giorno verrà, presago il cor mel dice,

verrà giorno che il sacro iliaco muro

e Priamo e tutta la sua gente cada.

Ma né de' Teucri il rio dolor, né quello

d'Ecuba stessa, né del padre antico,

né de' fratei, che molti e valorosi

sotto il ferro nemico nella polve

cadran distesi, non mi accora, o donna,

sì di questi il dolor, quanto il crudele

tuo destino, se fia che qualche Acheo,

del sangue ancor de' tuoi lordo l'usbergo,

lagrimosa ti tragga in servitude.

Misera! in Argo all'insolente cenno

d'una straniera tesserai le tele.

Dal fonte di Messìde o d'Iperèa,

(ben repugnante, ma dal fato astretta)

alla superba recherai le linfe;

e vedendo talun piovere il pianto

dal tuo ciglio, dirà: Quella è d'Ettorre

l'alta consorte, di quel prode Ettorre

che fra' troiani eroi di generosi

cavalli agitatori era il primiero,

quando intorno a Ilïon si combattea.

Così dirassi da qualcuno; e allora

tu di nuovo dolor l'alma trafitta

più viva in petto sentirai la brama

di tal marito a scior le tue catene.

Ma pria morto la terra mi ricopra,

ch'io di te schiava i lai pietosi intenda.

Così detto, distese al caro figlio

l'aperte braccia. Acuto mise un grido

il bambinello, e declinato il volto,

tutto il nascose alla nudrice in seno,

dalle fiere atterrito armi paterne,

e dal cimiero che di chiome equine

alto su l'elmo orribilmente ondeggia.

Sorrise il genitor, sorrise anch'ella

la veneranda madre; e dalla fronte

l'intenerito eroe tosto si tolse

l'elmo, e raggiante sul terren lo pose.

Indi baciato con immenso affetto,

e dolcemente tra le mani alquanto

palleggiato l'infante, alzollo al cielo,

e supplice sclamò: Giove pietoso

e voi tutti, o Celesti, ah concedete

che di me degno un dì questo mio figlio

sia splendor della patria, e de' Troiani

forte e possente regnator. Deh fate

che il veggendo tornar dalla battaglia

dell'armi onusto de' nemici uccisi,

dica talun: Non fu sì forte il padre:

E il cor materno nell'udirlo esulti.

Così dicendo, in braccio alla diletta

sposa egli cesse il pargoletto; ed ella

con un misto di pianti almo sorriso

lo si raccolse all'odoroso seno.

Di secreta pietà l'alma percosso

riguardolla il marito, e colla mano

accarezzando la dolente: Oh! disse,

diletta mia, ti prego; oltre misura

non attristarti a mia cagion. Nessuno,

se il mio punto fatal non giunse ancora,

spingerammi a Pluton: ma nullo al mondo,

sia vil, sia forte, si sottragge al fato.

Or ti rincasa, e a' tuoi lavori intendi,

alla spola, al pennecchio, e delle ancelle

veglia su l'opre; e a noi, quanti nascemmo

fra le dardanie mura, a me primiero

lascia i doveri dell'acerba guerra.

Raccolse al terminar di questi accenti

l'elmo dal suolo il generoso Ettorre,

e muta alla magion la via riprese

l'amata donna, riguardando indietro,

e amaramente lagrimando. Giunta

agli ettorei palagi, ivi raccolte

trovò le ancelle, e le commosse al pianto.

Ploravan tutte l'ancor vivo Ettorre

nella casa d'Ettòr le dolorose,

rivederlo più mai non si sperando

reduce dalla pugna, e dalle fiere

mani scampato de' robusti Achei.

Non producea gl'indugi in questo mezzo

dentro l'alte sue soglie il Prïamìde

Paride: e già di tutte rivestito

le sue bell'armi, d'Ilio folgorando

traversava le vie con presto piede.

Come destriero che di largo cibo

ne' presepi pasciuto, ed a lavarsi

del fiume avvezzo alla bell'onda, alfine

rotti i legami per l'aperto corre

stampando con sonante ugna il terreno:

scherzan sul dosso i crini, alta s'estolle

la superba cervice, ed esultando

di sua bellezza, ai noti paschi ei vola

ove amor d'erbe o di puledre il tira;

tale di Priamo il figlio dalla rocca

di Pergamo scendea tutto nell'armi

esultante e corrusco come sole.

Sì ratti i piedi lo portâr, ch'ei tosto

il germano raggiunse appunto in quella

che dal tristo parlar si dipartìa

della consorte. Favellò primiero

Paride, e disse: Alla tua giusta fretta

fui di lungo aspettar forse cagione,

venerando fratello, e non ti giunsi

sollecito, tem'io, come imponesti.

Generoso timor! rispose Ettorre;

null'uom, che l'opre drittamente estimi,

darà biasmo alle tue nel glorioso

mestier dell'armi; ché tu pur se' prode.

Ma, colpa del voler, spesso s'allenta

la tua virtude, e inoperosa giace.

Quindi è l'alto mio duol quando de' Teucri

per te solo infelici odo in tuo danno

le contumelie. Ma partiam, ché poscia

comporremo tra noi questa contesa,

se grazia ne farà Giove benigno

di poter lieti nelle nostre case

ai Celesti immortali offrir la coppa

dell'alma libertà, vinti gli Achei.

 

 

 

J. L. Borges, Giovanni, I, 14

 

Non sarà questa pagina enigma minore

di quelle dei Miei libri sacri

o delle altre che ripetono

le bocche inconsapevoli,

credendole d’un uomo, non già specchi

oscuri dello Spirito.

Io che sono l’È, il Fu e il Sarà

accondiscendo ancora al linguaggio

che è tempo successivo e simbolo.

Chi giuoca con un bimbo giuoca con ciò che è

prossimo e misterioso;

io volli giocare coi Miei figli.

Stetti fra loro con stupore e tenerezza.

Per opera di un incantesimo

nacqui stranamente da un ventre.

Vissi stregato, prigioniero di un corpo

e di un’umile anima.

Conobbi la memoria,

moneta che non è mai la medesima.

Il timore conobbi e la speranza,

questi due volti del dubbio futuro.

Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni,

l’ignoranza, la carne,

i tardi labirinti della mente,

l’amicizia degli uomini,

la misteriosa devozione dei cani.

Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.

Bevvi il calice fino alla feccia.

Gli occhi Miei videro quel che ignoravano:

la notte e le sue stelle.

Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido, quanto è dispari o scabro,

il sapore del miele e della mela

e l’acqua nella gola della sete,

il peso d’un metallo sulla palma,

la voce umana, il suono di passi sopra l’erba,

l’odore della pioggia in Galilea,

l’alto gridio degli uccelli.

Conobbi l’amarezza.

Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi;

non sarà mai quello che voglio dire,

ne sarà almeno un riflesso.

Dalla Mia eternità cadono segni.

Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera.

Domani sarò tigre fra le tigri

e dirò la Mia legge nella selva,

o un grande albero in Asia.

Ricordo a volte, e ho nostalgia, l’odore

di quella bottega di falegname.

 

 

Franz Kafka - Il silenzio delle sirene

 

 

Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.

Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all'albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò direttamente incontro alle Sirene.

Ora, le Sirene hanno un'arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.

 

E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell'avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticassero proprio di cantare.

Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall'udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle arie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua risolutezza e, proprio quando era più vicino a loro, non seppe più niente di loro.

Quelle - più belle che mai - si stirarono e si girarono, fecero agitare al vento i loro tremendi capelli sciolti e tesero le unghie sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevano solo carpire il più a lungo possibile lo sguardo dei grandi occhi di Odisseo.

Se le Sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, e solo Odisseo sfuggì a loro.

A questo punto, si tramanda ancora un'appendice. Odisseo, si dice, era così astuto, era una tale volpe, che neppure la Parca del destino poteva penetrare nel suo intimo. Egli, benché questo non si possa capire con l'intelletto umano, forse si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione.

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T.S. Eliot (1888–1965). The Waste Land. 1922.

 

The Burial of the Dead

 

APRIL is the cruellest month, breeding

Lilacs out of the dead land, mixing

Memory and desire, stirring

Dull roots with spring rain.

Winter kept us warm, covering

Earth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers.

[...]

That corpse you planted last year in your garden,

Has it begun to sprout? Will it bloom this year?

Or has the sudden frost disturbed its bed?

[...]

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Tyger ! Tyger! Burning bright

In the forests of the night,

What immortal hand or eye

Could frame thy fearful symmetry?

 

In what distant deeps or skies

Burnt the fire of thine eyes?

On what wings dare he aspire?

What the hand dare seize the fire?

And what shoulder, and what art,

Could twist the sinews of thy heart?

And when thy heart began to beat,

What dread hand? And what dread feet?

 

What the hammer? What the chain?

In what furnace was thy brain?

What the anvil? What dread grasp

Dare its deadly terrors grasp?

 

When the stars threw down their spears,

And water’d heaven with their tears

Did he smile his work to see?

Did he who made the Lamb make thee?

 

Tyger! Tyger! Burning bright

In the forests of the night,

What immortal hand or eye,

Dare frame thy fearful symmetry?

 

The tyger - William Blake

 

(mi spiace, ma non la trovo in una traduzione che non sia di Ungaretti... e Blake tradotto da Ungaretti non lo reggo proprio...)

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"Se davvero avete voglia di sentire questa storia,

magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato

e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano

i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io,

e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma

a me non mi va proprio di parlarne.

 

Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori

gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa

di troppo personale sul loro conto".

 

J. D. Salinger, Il giovane Holden (The Catcher in the Rye)

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In quel momento apparve la volpe.

"Buon giorno", disse la volpe.

"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.

"Sono qui", disse la voce, "sotto al melo... "

"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino... "

"Sono una volpe", disse la volpe.

"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, sono così triste... "

"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".

"Ah! scusa", fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

"Che cosa vuol dire "addomesticare"?"

"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?"

"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe.

"Che cosa vuol dire "addomesticare"?"

"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"

"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare?"

"È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami...

"Creare dei legami?"

"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo".

"Comincio a capire" disse il piccolo principe. "C'è un fiore... credo che mi abbia addomesticato..."

"È possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra... "

"Oh! non è sulla Terra", disse il piccolo principe.

La volpe sembrò perplessa:

"Su un altro pianeta?" "Si".

"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?" "No".

"Questo mi interessa. E delle galline?"

"No".

"Non c'è niente di perfetto", sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea:

"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano... "

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:

"Per favore... addomesticami", disse.

"Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".

"Non ci conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"

"Che cosa bisogna fare?" domandò il piccolo principe.

"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino... "

Il piccolo principe ritornò l'indomani.

"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe.

"Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro,dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore. Ci vogliono i riti".

"Che cos'è un rito?" disse il piccolo principe.

"Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza".

Così il piccolo principe addomesticò la volpe.

E quando l'ora della partenza fu vicina:

"Ah!" disse la volpe, "... piangerò".

"La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi... "

"È vero", disse la volpe.

"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.

"È certo", disse la volpe.

"Ma allora che ci guadagni?"

"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore ...del grano".

Poi soggiunse: "Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.

"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo".

E le rose erano a disagio.

"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perchè è lei che ho innaffiata. Perchè è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perchè è lei che ho riparata col paravento. Perchè su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perchè è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perchè è la mia rosa".

E ritornò dalla volpe.

"Addio", disse.

"Addio",...disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".

"L'essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.

"È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".

"È il tempo che ho perduto per la mia rosa... " sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

"Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa... "

"Io sono responsabile della mia rosa... " ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

 

Antoine de Saint-Exupéry

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Paul Valéry. 1871-1945. Le cimetière marin

 

Ce toit tranquille, où marchent des colombes,

Entre les pins palpite, entre les tombes;

Midi le juste y compose de feux

La mer, la mer, toujours recommencée

O récompense après une pensée

Qu'un long regard sur le calme des dieux!

 

Quel pur travail de fins éclairs consume

Maint diamant d'imperceptible écume,

Et quelle paix semble se concevoir !

Quand sur l'abîme un soleil se repose,

Ouvrages purs d'une éternelle cause,

Le temps scintille et le songe est savoir.

 

Stable trésor, temple simple à Minerve,

Masse de calme, et visible réserve,

Eau sourcilleuse, Oeil qui gardes en toi

Tant de sommeil sous une voile de flamme,

O mon silence ! . . . Édifice dans l'âme,

Mais comble d'or aux mille tuiles, Toit !

 

Temple du Temps, qu'un seul soupir résume,

À ce point pur je monte et m'accoutume,

Tout entouré de mon regard marin;

Et comme aux dieux mon offrande suprême,

La scintillation sereine sème

Sur l'altitude un dédain souverain.

 

Comme le fruit se fond en jouissance,

Comme en délice il change son absence

Dans une bouche où sa forme se meurt,

Je hume ici ma future fumée,

Et le ciel chante à l'âme consumée

Le changement des rives en rumeur.

 

Beau ciel, vrai ciel, regarde-moi qui change !

Après tant d'orgueil, après tant d'étrange

Oisiveté, mais pleine de pouvoir,

Je m'abandonne à ce brillant espace,

Sur les maisons des morts mon ombre passe

Qui m'apprivoise à son frêle mouvoir.

 

L'âme exposée aux torches du solstice,

Je te soutiens, admirable justice

De la lumière aux armes sans pitié !

Je te tends pure à ta place première,

Regarde-toi ! . . . Mais rendre la lumière

Suppose d'ombre une morne moitié.

 

Ô pour moi seul, à moi seul, en moi-même,

Auprès d'un coeur, aux sources du poème,

Entre le vide et l'événement pur,

J'attends l'écho de ma grandeur interne,

Amère, sombre, et sonore citerne,

Sonnant dans l'âme un creux toujours futur !

 

Sais-tu, fausse captive des feuillages,

Golfe mangeur de ces maigres grillages,

Sur mes yeux clos, secrets éblouissants,

Quel corps me traîne à sa fin paresseuse,

Quel front l'attire à cette terre osseuse ?

Une étincelle y pense à mes absents.

 

Fermé, sacré, plein d'un feu sans matière,

Fragment terrestre offert à la lumière,

Ce lieu me plaît, dominé de flambeaux,

Composé d'or, de pierre et d'arbres sombres,

Où tant de marbre est tremblant sur tant d'ombres;

La mer fidèle y dort sur mes tombeaux !

 

Chienne splendide, écarte l'idolâtre!

Quand solitaire au sourire de pâtre,

Je pais longtemps, moutons mystérieux,

Le blanc troupeau de mes tranquilles tombes,

Éloignes-en les prudentes colombes,

Les songes vains, les anges curieux !

 

Ici venu, l'avenir est paresse.

L'insecte net gratte la sécheresse;

Tout est brûlé, défait, reçu dans l'air

A je ne sais quelle sévère essence . . .

La vie est vaste, étant ivre d'absence,

Et l'amertume est douce, et l'esprit clair.

 

Les morts cachés sont bien dans cette terre

Qui les réchauffe et sèche leur mystère.

Midi là-haut, Midi sans mouvement

En soi se pense et convient à soi-même

Tête complète et parfait diadème,

Je suis en toi le secret changement.

 

Tu n'as que moi pour contenir tes craintes!

Mes repentirs, mes doutes, mes contraintes

Sont le défaut de ton grand diamant ! . . .

Mais dans leur nuit toute lourde de marbres,

Un peuple vague aux racines des arbres

A pris déjà ton parti lentement.

 

Ils ont fondu dans une absence épaisse,

L'argile rouge a bu la blanche espèce,

Le don de vivre a passé dans les fleurs!

Où sont des morts les phrases familières,

L'art personnel, les âmes singulières?

La larve file où se formaient les pleurs.

 

Les cris aigus des filles chatouillées,

Les yeux, les dents, les paupières mouillées,

Le sein charmant qui joue avec le feu,

Le sang qui brille aux lèvres qui se rendent,

Les derniers dons, les doigts qui les défendent,

Tout va sous terre et rentre dans le jeu !

 

Et vous, grande âme, espérez-vous un songe

Qui n'aura plus ces couleurs de mensonge

Qu'aux yeux de chair l'onde et l'or font ici ?

Chanterez-vous quand serez vaporeuse ?

Allez ! Tout fuit ! Ma présence est poreuse,

La sainte impatience meurt aussi !

 

Maigre immortalité noire et dorée,

Consolatrice affreusement laurée,

Qui de la mort fais un sein maternel,

Le beau mensonge et la pieuse ruse !

Qui ne connaît, et qui ne les refuse,

Ce crâne vide et ce rire éternel !

 

Pères profonds, têtes inhabitées,

Qui sous le poids de tant de pelletées,

Êtes la terre et confondez nos pas,

Le vrai rongeur, le ver irréfutable

N'est point pour vous qui dormez sous la table,

Il vit de vie, il ne me quitte pas !

 

Amour, peut-être, ou de moi-même haine ?

Sa dent secrète est de moi si prochaine

Que tous les noms lui peuvent convenir !

Qu'importe ! Il voit, il veut, il songe, il touche !

Ma chair lui plaît, et jusque sur ma couche,

À ce vivant je vis d'appartenir !

 

Zénon! Cruel Zénon ! Zénon d'Êlée !

M'as-tu percé de cette flèche ailée

Qui vibre, vole, et qui ne vole pas !

Le son m'enfante et la flèche me tue !

Ah! le soleil . . . Quelle ombre de tortue

Pour l'âme, Achille immobile à grands pas!

 

Non, non ! . . . Debout ! Dans l'ère successive !

Brisez, mon corps, cette forme pensive!

Buvez, mon sein, la naissance du vent !

Une fraîcheur, de la mer exhalée,

Me rend mon âme . . . O puissance salée !

Courons à l'onde en rejaillir vivant.

 

Oui ! grande mer de délires douée,

Peau de panthère et chlamyde trouée,

De mille et mille idoles du soleil,

Hydre absolue, ivre de ta chair bleue,

Qui te remords l'étincelante queue

Dans un tumulte au silence pareil.

 

Le vent se lève ! . . . il faut tenter de vivre !

L'air immense ouvre et referme mon livre,

La vague en poudre ose jaillir des rocs !

Envolez-vous, pages tout éblouies !

Rompez, vagues ! Rompez d'eaux réjouies

Ce toit tranquille où picoraient des focs !

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privateuniverse

Traccio una rotta, ma non so di quanto la devo rettificare, e dopo un po' non sono più sicuro della mia correzione. Si chiama navigazione stimata, signor Defoe, quando si procede soltanto con l'aiuto del solcometro e della bussola. Lo sapevate? Ad ogni modo è cosi', il racconto della mia vita non è altro che una navigazione stimata. Si sa dove si è, ma più ci si allontana dal punto di partenza, più la posizione diventa incerta. Il cerchio entro il quale ci si dovrebbe trovare diventa sempre più grande. E cosa si fa in questi casi? Si raddoppiano i turni di vedetta, nella speranza di avvistare terra prima che sia troppo tardi. Si consulta il giornale di bordo, e si valutano i vari fattori, l'errore strumentale del solcometro, la deriva causata dal vento e dalla corrente, i timonieri che poggiano o orzano per una raffica improvvisa. Ma si raggiunge mai una qualsiasi certezza? No, al contrario. Il navigatore esperto è quello che allarga sempre piu' il cerchio, che capisce che l'incertezza è l'unica certezza a disposizione.

 

Ho riletto il mio giornale di bordo per vedere dov'ero, e mi sono accorto che ho soltanto calcolato le dimensioni del mio cerchio, senza mettere nessuno di vedetta. Perché una cosa almeno l'ho capita: era solo un'illusione, una presunzione e un desiderio scambiato per realtà, credere di aver navigato tutta la vita con la terra in vista e dei rilevamenti precisi. No, la mia vita non è stata che una navigazione stimata, ma forse, chi lo sa, arriverò a

trovare la mia posizione, prima di affondare."

 

 

Björn Larsson, "La vera storia del pirata Long John Silver", Milano, Iperborea, 1998, pag. 226.

 

Se non un capolavoro, un'opera che vi si avvicina molto.

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Christopher

Alessandro Baricco - Novecento

 

"Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio.

Non sono pazzo, fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. [...]

I desideri stavano strappando l'anima. Potevo viverli, ma non ci son riuscito. Allora li ho incantati. E a uno a uno li ho lasciati dietro di me. [...]

Ho disarmato l'infelicità. Ho sfilato la mia vita dai miei desideri. Se tu potessi risalire il mio cammino, li troveresti uno dopo l'altro, incantati, immobili, fermati lì per sempre a seguire la rotta di questo viaggio strano che a nessuno mai ho raccontato se non a te."

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Michicant

Dal finale de La coscienza di Zeno di Italo Svevo:

 

"La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può av-venire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. FINE"

Edited by Michicant
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GlassOnion

Eugenio Montale, A K.

 

(la famosa poesia con cui qualche anno fa agli esami di maturità il ministero fece una grandissima gaffe scrivendo, nella consegna dell'analisi del testo per la prima prova, che era dedicata ad una donna.)

 

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida

scorta per avventura tra le pietraie d’un greto,

esiguo specchio in cui guardi un’ellera e i suoi corimbi;

e su tutto l’abbraccio di un bianco cielo quieto.

 

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,

se dal tuo volto si esprime libera un’anima ingenua,

vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua

e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

 

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie

sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,

e che il tuo aspetto s’insinua nella memoria grigia

schietto come la cima di una giovane palma…

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Poche letture mi hanno divertita come questa. :)

 

Picasso di Gertrude Stein (tratto da Flirtare ai grandi magazzini)

 

"Qualcuno che certamente aveva alcuni seguaci era un tipo davvero incantevole. Qualcuno che certamente aveva alcuni seguaci era un tipo incantevole. Qualcuno che aveva alcuni seguaci era un tipo davvero incantevole.

Alcuni erano certamente seguaci ed erano certi che colui che seguivano allora fosse uno che lavorava e uno che da se stesso tirava fuori allora qualcosa. Alcuni erano certamente seguaci ed erano certi che colui che seguivano allora era uno che da se stesso tirava fuori allora qualcosa che stava diventando una cosa pesante, una cosa solida e una cosa completa.

Qualcuno che certamente aveva alcuni seguaci era uno che lavorava e certamente uno che tirava fuori da se stesso qualcosa allora e uno che era stato per tutta la vita era stato uno che aveva qualcosa che usciva da lui.

Qualcosa aveva continuato ad uscire da lui, certamente aveva continuato ad uscire da lui, certamente si trattava di qualcosa, certamente aveva continuato ad uscire da lui e aveva un significato, un significato incantevole, un significato solido, un significato combattivo, un significato chiaro.

Qualcuno che certamente aveva alcuni seguaci e certamente aveva alcuni seguaci, qualcuno che certamente aveva alcuni seguaci era uno che certamente lavorava.

Qualcuno che certamente aveva alcuni seguaci era uno che aveva qualcosa che usciva da lui qualcosa che aveva un significato e costui allora certamente lavorava.

Costui lavorava e allora qualcosa veniva, allora qualcosa veniva fuori da costui. Costui era uno e sempre c'era qualcosa che usciva da costui e sempre c'era stato qualcosa che usciva da costui. Costui non era mai stato qualcuno che non aveva qualcosa che usciva da costui. Costui era qualcuno che aveva qualcosa che usciva da costui. Costui era stato qualcuno che aveva alcuni seguaci. Costui era qualcuno che aveva alcuni seguaci. Costui era qualcuno che aveva alcuni seguaci. Costui era uno che lavorava.

Costui era uno che lavorava. Costui era uno che era uno che aveva qualcosa che usciva da lui. Costui era uno che continuava ad avere qualcosa che usciva da lui. Costui era uno che continuava a lavorare. Costui era uno che aveva alcuni seguaci. Costui era uno che lavorava.

Costui aveva sempre avuto qualcosa che usciva da costui. Costui lavorava. Costui aveva sempre lavorato. Costui aveva sempre avuto qualcosa che usciva da costui che era una cosa solida, una cosa incantevole, una cosa adorabile, una cosa inaspettata, una cosa sconcertante, una cosa semplice, una cosa chiara, una cosa complicata, una cosa interessante, una cosa disturbante, una cosa repellente, una cosa molto bella. Costui era uno certamente era uno che aveva qualcosa che usciva da lui. Costui era uno che aveva alcuni seguaci. Costui era uno che lavorava.

Costui era uno che lavorava e certamente costui aveva bisogno di lavorare in modo da essere uno che lavorava. Costui era uno che aveva qualcosa che usciva da lui. Costui sarebbe stato per tutta la vita uno che aveva qualcosa che usciva da lui. Costui lavorava e poi costui lavorava e costui aveva bisogno di lavorare, non di essere uno che aveva qualcosa che usciva da lui qualcosa che avesse un significato, ma aveva bisogno di lavorare in modo da essere uno che lavorava.

Costui certamente lavorava e lavorare era qualcosa che costui era certo che costui avrebbe fatto e costui la faceva quella cosa, costui lavorava. Costui non era uno che lavorava completamente. Costui non lavorava mai completamente. Costui certamente non lavorava completamente.

Costui era uno che aveva sempre qualcosa che usciva da lui, qualcosa che aveva completamente un vero significato. Costui era uno che aveva alcuni seguaci. Costui era uno che lavorava. Costui era uno che lavorava ed era uno che aveva bisogno di questa cosa bisogno di lavorare in modo da essere uno che aveva un suo modo di essere uno che aveva un suo modo di lavorare. Costui era uno che lavorava. Costui era uno che aveva qualcosa che usciva da lui qualcosa che aveva un significato. Costui era uno che aveva sempre qualcosa che usciva da lui e questa cosa la cosa che usciva da lui aveva sempre un vero significato. Costui era uno che lavorava. Costui era uno che lavorava quasi sempre. Costui era uno che non lavorava completamente. Costui era uno che giammai lavorava completamente. Costui non era uno che lavorava per avere una qualsiasi cosa che usciva da lui. Costui aveva proprio qualcosa che aveva un significato che usciva da lui. Aveva sempre qualcosa che usciva da lui. Lavorava, non lavorava mai completamente. Aveva un seguito. Seguaci che lo seguivano sempre. Certamente alcuni lo seguivano. Era uno che lavorava. Era uno che aveva qualcosa che usciva da lui qualcosa che aveva un significato. Non lavorava mai completamente."

Edited by Fra86
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parole_alate

Scopro alla finestra lo spigolo d'una gronda,

in una casa invecchiata, ch'è di legno corroso

e piegato da strati di tegole. Rondini vi sostano

qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti

e lungo i tubi, gore di catrame, calcine

di misere riparazioni. Ma vento e neve,

se stancano il piombo delle docce, la trave marcita

non la spezzano ancora.

Penso con qualche gioia

che un giorno, e non importa

se non ci sarò io, basterà che una rondine

si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti

irreparabilmente, quella volando via.

 

[Franco Fortini, La gronda]

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L'unico residuo di fede era il suo senso di colpa. Vedeva la malattia che lo aveva colpito

come la punizione per il suo stile di vita. Aveva vissuto nel peccato. L'aids era il prezzo

che doveva pagare per la sua omosessualità. Era difficile toglierglielo dalla testa. L'aids

non era una malattia qualsiasi, l'aids faceva di te un paria.

«Nella prossima vita», mi disse un pomeriggio, «voglio essere eterosessuale. E poi mi

sposo con Elizabeth».

«Nella prossima vita», gli dissi, «sarai di nuovo omosessuale. Ne godrai di nuovo e ne

soffrirai di nuovo, come ogni essere umano che non rinuncia a seguire la propria strada».

Mi guardò e mi disse: «Grazie».

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BOMBARDAMENTO

 

ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare

spazio con un accordo tam-tuuumb

ammutinamento di 500 echi per azzannarlo

sminuzzarlo sparpagliarlo all’infinito

Nel centro di quei tam-tuumb

spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati)

balzare scoppi tagli pungi batterie tiro

rapido Violenza ferocia regolarità questo

basso grave scandere gli strani folli agita-

tissimi acuti della battaglia Furia affanno

orecchie occhi

narici aperti attenti

forza che gioia vedere udire fiutare tutto

tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare

a perdifiato sotto morsi schiaffi traak-

traack frustare pic-pac-pum-tumb bizz-

zzarie salti altezza 200m. della fucileria

Giù giù in fondo all’orchestra stagni

diguazzare buoi bufali

pungoli carri pluff plaff inpen-

impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack

lari nitriti iiiiii….. scalpiccii tintinnii 3

battaglioni bulgari in marcia croooc-craac

[LENTO DUE TEMPI] Sciumi Marita

o Karvavena croooc craaac grida degli

ufficiali sbataccccchiare come piattttti d’otttttone

pan di qua paack di là cing buuum

cing ciack [PRESTO] ciaciaciaciaciaak

su giù là là in-torno in alto attenzione

sulla testa ciaack bello Vampe

vampe

vampe vampe

vampe vampe

vampe ribalta dei forti die-

vampe

vampe

tro quel fumo Sciukri Pascià comunica tele-

fonicamente con 27 forti in turco in te-

desco allò Ibrahim Rudolf allô allô

attori ruoli echi suggeritori

scenari di fumo foreste

applausi odore di fieno fango sterco non

sento più i miei piedi gelati odore di sal-

nitro odore di marcio Timmmpani

flauti clarini dovunque basso alto uccelli

cinguettare beatitudine ombrie cip-cip-cip brezza

verde mandre don-dan-don-din-béèé tam-tumb-

tumb tumb tumb-tumb-tumb

-tumb Orchestra pazzi ba-

stonare professori d’orchestra questi bastonatissimi

suooooonare suooooonare Graaaaandi

fragori non cancellare precisare ritttttagliandoli

rumori più piccoli minutissssssimi rottami

di echi nel teatro ampiezza 300 chilometri

quadrati Fiumi Maritza

Tungia sdraiati Monti Rò-

dopi ritti alture palchi log-

gione 2000 shrapnels sbracciarsi ed esplodere

fazzoletti bianchissimi pieni d’oro Tum-

tumb 2000 granate

protese strappare con schianti capigliature

tenebre zang-tumb-zang-tuuum-

tuuumb orchestra dei rumori di guerra

gonfiarsi sotto una nota di silenzio

tenuta nell’alto cielo pal -lone

sferico dorato sorvegliare tiri parco aerostatico Kadi-Keuy .

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