.Gi@como. Posted October 12, 2009 Share Posted October 12, 2009 Non è passato molto tempo da quel fatidico giorno. Mi ricordo tutto come fosse ieri. Mi presento, mi chiamo Lorenz e di professione faccio il secondino. La prigione in cui lavoro è una piccola gattabuia in un remoto paesino polacco, paesino dimenticato da tutti e soprattutto da Dio. Mio padre era un tagliaboschi, morì un giorno schiacciato da un abete. Con la sua morte, mia madre, Agatha, si ritrovò in disastrose condizioni economiche, e decise di affidare me e mio fratello a sua sorella per poterci salvare dalla povertà. Così, alla tenera età di due anni, lasciai quello che era il mio piccolo angolo di paradiso, ed andai a vivere da mia zia a Jalta. Dopo appena un anno mia madre si impiccò al lampadario del nostro salone, lasciando, accanto allo sgabello che la innalzò al signore, una piccola busta contente una lettera dalla calligrafia difficilmente comprensibile (mia madre non aveva studiato). Quando me la fecero leggere, esattamente dieci anni dopo, riuscì ben poco a comprendere di quel marasma di parole, se non che 'Lorenz', 'Brandon' (mio fratello) e 'Rolazov' (mio padre), solamente per il fatto che erano contraddistinte dall'iniziale maiuscola. Dunque, ad oggi, non so perché mia madre decise di lasciare questo mondo, forse per i troppi debiti, forse per il disonore, forse perché ci amava e non avrebbe voluto che noi la conoscessimo nello stato in cui stava versando. Per qualunque motivo si sia tolta la vita, quel 16 giugno 1987, all'età di quattordici anni, scappai di casa di mia zia, dal momento che fino ad allora mi era sempre stato detto che prima o poi avrei rivisto colei che mi aveva messo al mondo e che, a detta dei miei parenti, stava indefessamente lavorando per poterci un giorno tornare a mantenere autonomamente. Inutile dire lo scompiglio che creai in casa quel giorno, visto che rimasi in giro all'addiaccio per circa quattordici ore. Quando decisi di rientrare mia zia aveva appena finito di fornire l'identikit alla polizia locale, e subito mi corse incontro piena di lacrime. La reazione di mio zio fu altrettanto comprensiva, anche lui da piccolo dovette subire la notizia della morte di sua madre. In qualsiasi caso, da quel giorno la mia vita cambiò: inizialmente orfano di padre, e successivamente di madre, persi totalmente la fiducia nel mondo, tanto che all'età di diciassette anni, dopo aver avuto esperienze con la cocaina, diventai un eroinomane. Entrai definitivamente nel giro solo un anno dopo, quando ormai dovevo per forza di cose spararmi endovena un quindicino al giorno, altrimenti sarei entrato pericolosamente a rota. Fu in questo periodo che provai le esperienze peggiori; lasciato lo studio da geometra, cominciai a bazzicare i locali più malfamati della città, alla ricerca di qualche spacciatore che potesse vendermi la roba a basso prezzo. Più tardi, quell'anno, diventai io stesso spacciatore, in modo tale che potessi comprarmi senza fatica le dosi giornaliere. Tuttavia era un mestiere pericoloso, tanto che venni schedato un paio di volte e fui costretto a passare diverse notti in cella. Allora non potevo sapere che, in futuro, quel luogo sarebbe stato la mia ragion d'essere. Smisi di drogarmi quando, a ventidue anni, stavo per lasciarci la pelle per colpa di un'epatite. Il medico che mi strattonò via dall'inferno mi riteneva un miracolato, e proprio per questo motivo decisi di avvicinarmi alla religione. Ne uscìi subito, però, in quanto capìi che fede e droga viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda: sono ottimi metodi per cercare di sopraelevarsi verso un mondo che non esiste. Ho imparato col tempo, infatti, che l'unico mondo possibile è quello in cui cadiamo più e più volte, quello in cui combattiamo l'eterna lotta contro noi stessi, quello in cui sono presenti le più svariate tentazioni che, promettendo mondi più appetibili, ci nascondono il loro essere menzogna: questo. Di conseguenza, lasciai il gruppo ortodosso a cui ero stato iniziato, e decisi di trovarmi un lavoro che potesse permettermi la sopravvivenza. Venni assunto da un conciatore, e cominciai a lavorare a ritmi serrati giorno e notte. Quella bottega era diventata la mia seconda casa, in quanto gli orari di lavoro erano irragionevoli, tanto da costringermi a saltare i pasti pur di ottemperare alle consegne. Se non ero a lavoro, di certo ero in qualche bettola ad ubriacarmi; ormai questa era la mia vita, e mi barcamenavo tra la dura realtà delle pelli e del sudore e il mirabolante mondo dell'alcool. Qualche volta cedetti nuovamente all'eroina, ma riuscìi, non so grazie a quale forza di volontà, a non riassoggettarmi completamente ad essa. Accadde che un giorno, mentre ordinavo ad un oste sdentato il solito, una ragazza dai tratti caucasici mi si sedette di fianco. Spiazzato, in quanto di straniere ne avevo viste ben poche in vita mia, le chiesi come si chiamasse e perché si trovasse in quel postaccio. Lei, palesando una certa cultura e un certo imbarazzo, vista la mia sfacciataggine, mi rispose che era una studentessa che stava per laurearsi in scienze della comunicazione, e dunque aveva deciso di dare gli ultimi esami all'estero, e specialmente qui in Repubblica Ceca, in quanto riteneva questa nazione molto caratteristica ed ideale per i suoi ultimi studi. Io, che non avevo mai avuto a che fare con degli studiosi, mi sentìi come in soggezione, ma, dopo averle offerto da bere, cominciammo entrambi a scioglierci. Così, preso da chissà quale follia, la invitai ad uscire un giorno di quelli. Lei, sorridendomi , accettò, e così solamente tre giorni dopo, tutto in ghingheri, la andai a prendere nello studentato nel quale soggiornava. La vidi scendere le scale con un'armonia fantastica, le sue forme sinuose riuscirono ad imbambolarmi per un buon numero di secondi. Quando me la ritrovai completamente davanti.. [to be continued] Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
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