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[Racconto gay] Il marcio dentro


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metalheart

La stanza d’ospedale era un inferno bianco. L’odore era la prima cosa che lo colpiva: denso, penetrante, un misto di carne putrefatta e disinfettante troppo forte. Marcello era già pentito di aver dato un'ultima possibilità all'anziano padre. Respirava a piccoli sorsi, cercando di non farsi sopraffare dalla puzza. Era accanto al vecchio, gli occhi ridotti a due fessure ruvide e scure. Da quanto tempo era lì? Ore, forse.

“I dottori dicono che non c’è più niente da fare,” sussurrò il vecchio, la voce crepata come carta vetrata. Le parole si persero nell’aria pesante, rimanendo sospese tra loro, un’eco che nessuno voleva riprendere.

“Certo,” replicò Marcello, con un sorrisetto amaro. “Come se ci fosse mai stato qualcosa da fare, vero? È la storia della tua vita, dopotutto: guardare, restare immobile, e lasciarti sopraffare dalla merda.” Sollevò il braccio, agitando le dita inanellate con un gesto che voleva sembrare sprezzante. I suoi occhi, accentuati dal trucco nero e dall’eyeliner che sbavava, erano fissi su quell’uomo, incapace di distogliere lo sguardo.

“Non parlare così,” disse il padre con un filo di voce. Si portò una mano al volto e la lasciò ricadere subito, stremato da quel semplice movimento. "Ci sono sempre stato...”.

Marcello rise, un suono secco e sgraziato. “Ah, davvero? Sempre? E dov’eri quando tutti mi davano del frocio? Quando arrivavo a casa con il trucco sbavato e le guance gonfie di lividi? Oh, certo, ricordo. Eri lì, a sorseggiare il tuo whisky, a guardare il telegiornale e a chiederti cosa avessi sbagliato per ritrovarti un figlio così.” Il volto si contrasse in una smorfia di rabbia, ma subito scomparve, sostituito da un’espressione di falsa calma.

Il padre rimase in silenzio, un silenzio pesante, che sembrava voler dire molto di più di qualsiasi parola. Si passò una mano tremante tra i pochi capelli grigi, un gesto stanco e carico di rassegnazione. Gli occhi si posarono su quella pelle costellata di macchie violacee e giallastre che si espandevano come muffa su un muro umido. Non disse nulla. Nessun commento, nessuna domanda. Solo uno sguardo, freddo e distante, che sembrava evitare di soffermarsi troppo su quei dettagli.

“Lo vedi, no?” disse Marcello, piegando la testa di lato con una lentezza esasperante. “La carne che si sfalda, che emana un odore che fa vomitare? Lo vedi quanto fai schifo, vero? Perché è questo che sei. Perché questo è il tuo duro lavoro, papà. Questo è il risultato del tuo splendido senso del dovere.”

“Non parlarmi così,” mormorò l’uomo, il tono stanco, svuotato. “Io ho cercato di esserci, di capirti…”

“Ah, certo, certo!” esplose Marcello, con un sorrisetto isterico che gli contorceva le labbra. “Eri lì, a darmi lezioni su come accettarmi. Eri lì a sostenere i miei diritti, a fare lo splendido ai pranzi di famiglia con le tue frasette fatte sui diritti civili. Ma scommetto che adesso non sai cosa fare, vero? Che giustizia poetica, brutta carogna che marcisce sotto il sole.”

Il padre rimase sbigottito, come se quelle parole lo avessero colpito davvero, come se avessero un peso fisico. Si guardò le mani, le dita contorte dall’artrosi. Sembrava cercare una risposta, ma trovava solo il vuoto.

“E ora ti fai vedere, con quella faccia contrita, come se fossi qui per me,” continuò Marcello, la voce ridotta a un sibilo velenoso. “Sei un codardo, papà. Ti sei presentato solo perché sai che è finita. Perché vuoi pulirti la coscienza, sperare in un ultimo perdono. Ma non c’è perdono per te, hai capito?”

La luce fioca della stanza gettava ombre profonde sulle guance scavate del vecchio, eppure gli occhi sembravano brillare di qualcosa che poteva essere rabbia, o forse solo disperazione. Si avvicinò di nuovo, lentamente, e allungò una mano verso il letto, un gesto esitante, quasi meccanico.

Marcello si girò, mostrando i denti in una smorfia di repulsione. “Non osare toccarmi. Non osare nemmeno pensarci. Mi hai già fatto abbastanza danno, non credi?” Il silenzio che seguì fu assoluto. Nessun altro suono oltre al respiro pesante di Marcello e a quel tanfo che sembrava saturare ogni molecola d’aria.

Poi, improvvisamente, il padre lasciò cadere la mano lungo il fianco. L’espressione cambiò, si fece rassegnata. Annuì leggermente, come se avesse appena accettato qualcosa di inevitabile.

“Va bene,” disse con un tono così piatto da sembrare un sussurro. “Va bene, Marcello.”

Indietreggiò ancora un passo, gli occhi che lo scrutavano con un misto di dolore e pietà. Marcello si aspettava che il padre dicesse qualcos’altro, che si sforzasse ancora un po’ di trovare una giustificazione, una scusa qualsiasi. Invece, lo vide voltarsi lentamente verso la porta.

“Papà, dove vai?” chiese Marcello, con un filo di voce che tradiva un’improvvisa incertezza. Il vecchio non si fermò, non si girò nemmeno. Fece solo scivolare la mano sulla maniglia e aprì la porta. Per un attimo, rimase sulla soglia, poi uscì senza voltarsi, chiudendola dietro di sé con un lieve clic.

Marcello rimase immobile, il fiato che gli si spezzava in gola. Si sentiva stordito, perso. Guardò il soffitto, cercando di orientarsi. Si chinò leggermente, sforzandosi di sollevare la testa, e notò una macchia giallastra che si espandeva lentamente. Vide le lenzuola che si arricciavano intorno al suo corpo, impregnate di un liquido scuro che colava dalle piaghe aperte sulle gambe.

L’odore nauseante lo colpì come un pugno.

La sua pelle, grigia e rigonfia, sembrava quasi esplodere per il liquido che si accumulava sotto la superficie. I brandelli di carne si staccavano dalle braccia, lasciando gocce di pus che imbrattavano il cuscino. Respirò forte, cercando di urlare, ma dalla sua bocca non uscì altro che un suono soffocato.

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