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Quali sono le forze avverse all'amicizia?


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i legami frutto di libera scelta (quindi escludendo quelli parentali)

sono sempre stati, per me, motivati da un progetto comune

o dalla percezione di un progetto potenziale

il progetto motiva e muove l'affettività

quindi a mio avviso la gratuità non c'è

questo equilibrio è molto complicato

infatti non è detto che il progetto sia condiviso da entrambe le parti

o che ne sia percepita da entrambe le parti la sua "giustezza"

la durata di questo progetto comune, e il suo sapersi trasformare nel tempo in sintonia con la crescita di entrambi

è la base della durata del rapporto

se il progetto vive, qualsiasi ostacolo può essere superato

se il progetto muore, muore o si affievolisce anche il sentimento che lo cementava

 

per progetto non intendo affatto (almeno non necessariamente) un progetto economico

ad esempio le amicizie adolescenziali hanno sotteso un progetto di crescita e di sperimentazione comune delle cose e del mondo

quindi in questo caso è un progetto "affettivo"

ma non trascurerei anche la forza di altri tipi di progetti

ad esempio trovare una complementarietà di capacità ed una unità di obiettivi

da cementare in un progetto economico come la fondazione di una società

 

aggiungo che per noi gay esiste a mio avviso un problema in più

nel senso che per un gay l'amicizia maschile conserva sempre un substrato ambiguo che la può fare "oscillare" a volte verso l'attrazione fisica

lo stesso può accadere con l'amicizia femminile: in tal caso, per quanto si possa chiarire la propria tendensa sessuale,

rimane a mio avviso sempre una certa ambiguità di fondo che, almeno per me, ha reso l'amicizia con donne

ancora più difficile e complicata di quella con uomini

Hinzelmann

Che discorsi complicati che fate...

 

Il progetto a me pare funzionare

come occasione d'incontro, tipo

fare un viaggio insieme ( qualcosa

di delimitato ) poi è l'esperienza in

sè, se piacevole, a smuovere l'affettività.

 

Le amicizie adolescenziali le considererei

più formative in senso stretto, che affettive.

In questo senso sono direi "uniche".

@ Conrad

 

anche per me i rapporti sono quasi sempre motivati da progetti comuni, da intese su cose

essenziali, eccetera. La riflessione però nasceva dalla considerazione che ogni amicizia che ha

una genesi di questo tipo (o analoga: ad esempio vivere una determinata esperienza comune)

è, spesso, destinata a decadere quando noi cambiamo. Perchè si cambia, e se l'amicizia nasceva

dalla condivisione di qualcosa (progetto, interesse, esperienza) è difficile che resista quando

questo qualcosa è superato da un altro e poi un altro ancora. Non a caso la mia amica, donna,

parlava di «gratuità», e d'altra parte citava, specularmente, il «non riconoscersi più in quello che si era».

gianduiotto

@Isher

Ho riflettuto un bel po' prima di rispondre perchè volevo chiarimi bene le idee. Ho tirato fuori un vecchio fantasma del passato e sono venuti fuori il ricordo di un'emozione e di un senso di dispiacere tali e quali a come erano stati "archiviati" in memoria all'epoca di miei 19 anni.

Mi sono reso conto che mentre scrivevo

colui che non ha compreso ed accettato la scelta legittima e coraggiosa di un amico
parlava l'uomo che sono oggi. Al contrario mentre scrivevo
colui che non è stato capace di dire una parola chiara e giusta in sua difesa
parlava il ragazzo di tanto tempo fa.

Giustamente scrivi

Non so il tuo episodio, ma forse il non aver accettato quella scelta per carità legittima è anche il segno che non ti corrispondeva,

che non è la tua verità, al fondo, quindi l'avresti solo subita.

Quella scelta allora non mi corrispondeva nel senso che condividerla con lui avrebbe implicato, almeno allora così pensavo, l'esclusione dal gruppo dei pari; che nella mia testa di diciannovenne equivaleva alla morte sociale.

Il mio amico allora ha fatto terra bruciata dietro di sè, cancellando oltre a me, anche un bel pezzo delle sue amicizie. Dal canto mio quel che rilettendoci mi è parso di concludere è che il vero rammarico non sia tanto la fine di un rapporto ( vista a posteriori sarebbe comunque stato inevitabile) quanto il fatto che in quel momento io per vigliaccheria e per non espormi agli occhi del gruppo, non abbia cercato un confronto diretto, un chiarimento, una spiegazione. Insomma che non lo abbia nemmeno cercato per chiedergli perchè e dirgli io comunque ci sono .

 

Tornando in argomento si è discusso di gratuità (e in contrapposizione ad essa di movente economico), dell'amicizia.

Nella speranza di aver afferrato almeno qualcosa di giusto delle dotte dissertazioni di cui sopra, mi permetto di aggiungere che , secondo me esiste un intersse legittimo nel rapporto di amicizia. Esso è un rapporto fra pari. E' la comunione (che parola cattolica ho scelto :asd:) reciproca di una parte di sè. La gratuità riside nel fatto che spontaneamente doniamo qualcosa di noi stessi. Ma per essere amici qualcosa dobbiamo donare e specularmente qualcosa di sè il nostro amico deve mettere in comunione con noi.

L'amicizia rischia di finire quando uno dei due va oltre questo interesse legittimo: quando ad esempio si intende manipolare o sopraffare l'altro, o quando per mutate condizioni ambientali non si ha più voglia di portare avanti il rapporto.

Parlo espressamente di volontà, sulla base della mia personale esperienza: vivendo da tempo in una città diversa e distante da quella in cui sono nato, posso dire che molti degli amici di quando ero ragazzo ( il gruppo dei pari cui facevo riferimento prima) sono amici tutt'ora. La mia migliore amica è sempre lei da quando avevo 15 anni. Potevo sparire e non l'ho fatto perchè non l'ho voluto fare.

Ecco perchè non posso essere del tutto d'accordo con Hinzelmann qunado scrive che

Le amicizie adolescenziali le considererei

più formative in senso stretto, che affettive.

Indubbiamente il mio gruppo è stato formativo, ma la formazione più importante che mi ha dato è stata all'affettività propria di un essere umano-soggetto indipendente da vincoli (leggasi amore dovuto alla famiglia). Per me ne è prova che molti di quei rapporti durano tuttora, con modi e tempi e ritmi diversi, ovviamente.

 

 

Quella scelta allora non mi corrispondeva nel senso che condividerla con lui avrebbe implicato, almeno allora così pensavo, l'esclusione dal gruppo dei pari; che nella mia testa di diciannovenne equivaleva alla morte sociale.

Il mio amico allora ha fatto terra bruciata dietro di sè, cancellando oltre a me, anche un bel pezzo delle sue amicizie. Dal canto mio quel che rilettendoci mi è parso di concludere è che il vero rammarico non sia tanto la fine di un rapporto ( vista a posteriori sarebbe comunque stato inevitabile) quanto il fatto che in quel momento io per vigliaccheria e per non espormi agli occhi del gruppo, non abbia cercato un confronto diretto, un chiarimento, una spiegazione. Insomma che non lo abbia nemmeno cercato per chiedergli perché e dirgli io comunque ci sono .

 

 

Sono contento di sapere che la riflessione su quella mia frase ti abbia portato a comprendere e dividere i vari aspetti

di questa storia e di quell'emozione cumulativa.

 

Ora ti dico quale riflessione ed emozione suscita in me la tua storia. L'adolescenza è un periodo ferino della vita di una

persona. I timori di esclusione, di morte civile, che avevi, erano probabilmente più che giustificati, e tu hai ritenuto di

doverti difendere. Ti rammarichi di non essere stato più Soggetto, e su questo ti seguo e ti dò ragione. Ma se quel tuo

amico è stato capace di fare terra bruciata a quel modo, forse non ti assomiglia molto. Si ritorna al tema del mio topic,

che amicizia e omicidio affettivo vanno di pari passo nella vita, e che si compiono questi ultimi perché non si sopporta

di non essere identici (il che non è molto evoluto)

 

secondo me esiste un interesse legittimo nel rapporto di amicizia. Esso è un rapporto fra pari. E' la comunione (che parola cattolica ho scelto :asd:) reciproca di una parte di sè. La gratuità riside nel fatto che spontaneamente doniamo qualcosa di noi stessi. Ma per essere amici qualcosa dobbiamo donare e specularmente qualcosa di sè il nostro amico deve mettere in comunione con noi.

L'amicizia rischia di finire quando uno dei due va oltre questo interesse legittimo

 

Sono totalmente d'accordo con te. Trovo giustissimi i concetti di rapporto tra pari e interesse legittimo.

E' una concezione laica, proprio nello slancio e nell'impulso a dare una parte di sé e a ricevere e richiedere

analoga donazione. E' un patto. Quindi qui il mio discorso si ricollega a quanto dicevo sopra: bisogna essere

capaci di vedere le cose in quest'ottica e di fare questo patto, e non tutti lo sono.

 

Ma comunione non è parola cattolica: è parola greca, syn-ousia. Essere-con.

 

Una precisazione: credo che la mia amica con «gratuità» volesse significare un altro concetto: il puro piacere

di vivere gli incontri senza bisogno di giustificazioni troppo pressanti; l'aderire a quello che ci si presenta e ci

piace e dirgli : sì. In effetti le mediazioni superegoiche, seppure istantanee e in parte inconsce, pongono mille

interdetti a ogni soddisfazione di impulsi (non solo sessuali). Per questo guadagnare una buona dose di

gratuità significa essere più liberi.

Sono totalmente d'accordo con te. Trovo giustissimi i concetti di rapporto tra pari e interesse legittimo.

E' una concezione laica, proprio nello slancio e nell'impulso a dare una parte di sé e a ricevere e richiedere

analoga donazione. E' un patto. Quindi qui il mio discorso si ricollega a quanto dicevo sopra: bisogna essere

capaci di vedere le cose in quest'ottica e di fare questo patto, e non tutti lo sono.

 

Esatto, è un patto societario, nel senso proprio etimologico del termine, ovvero unione ma anche convenzione tra parti.

Senza alcun dubbio, Gian ha colto segno individuando il concetto di interesse legittimo, od altrimenti l'obbedienza ad un principio economico che mi spinge a dare e profondere onde io possa ricevere altro a mio miglior giovamento. La dinamica triadica pare essere chiara: quel che davvero interessa in questo topic, non sono le parti costituenti, ma la relazione in sé presa. Un amico mette di sé, o intero se stesso, non a disposizione di altri, ma della relazione. E' all'interno di questa (comunione, giustamente) che i giochi si svolgono; fuori, smette l'amicizia. L'adesione al patto originario si riassume nella comunanza degli scopi, nell'intesa del procedere. Ma una società (ed intendo impresa) è più che protensione verso il futuro, è anche spartizione di utili qui ed ora. E' un accordo tra breve e lungo periodo. In un tempo sufficientemente lungo i miei interessi e quelli della relazione potrebbero divergere, senza per questo ingenerare stupore.

Ma una società (ed intendo impresa) è più che protensione verso il futuro, è anche spartizione di utili qui ed ora. E' un accordo tra breve e lungo periodo. In un tempo sufficientemente lungo i miei interessi e quelli della relazione potrebbero divergere, senza per questo ingenerare stupore.

 

E' una conclusione del tutto legittima. Del resto noi l'applichiamo mille volte nel corso della nostra

vita, questa rottura di rapporti e intese non più attuali, non più soddisfacenti.

Ma il problema che volevo sollevare, relativamente alle amicizie in senso proprio e pieno, è,

dandogli un altro nome, quello dell'errore. Siamo sicuri che tutto sia così trasparente e lineare,

che le nostre decisioni siano in sé così terse e sensate, o non è questa una risistemazione,

una razionalizzazione, a posteriori?

 

Il problema è quello dell'errore. E più in generale di una struttura psicologica che lo genera:

le «forse avverse» del mio titolo.

 

Noi non siamo così sovranamente liberi e padroni di noi stessi da poter credere che il movente

delle nostre azioni sia da noi sempre consaputo, visto chiaramente, scelto; che ogni nostra azione sia

una scelta: siamo anche persone perennemente perfettibili e la conoscenza che abbiamo di noi

stessi è spesso un'ombra che viene dopo, e che si tratta di agguantare, non senza fatica.

 

Con questo non voglio affatto dire che questa configurazione regna sovrana sulle nostre azioni,

ma che non è estranea ad esse.

Ritornerò un attimo alla domanda posta da Isher in apertura di thread

ma a proposito delle cause che avversano l'amicizia o tendono a sgretolarla, oltre alle già citate (su tutte personalmente sentirei di mettere scelte di vita diverse, cambiamento della propria visione che porta ad allontanarsi), metterei anche il fatto di essere, paradossalmente, "troppo a contatto"

 

Intendo, ad esempio, nel campo del lavoro: avere tutti i giorni al proprio fianco un amico può diventare molto complicato; se infatti, con lui ci si trova bene negli aspetti più "ludici" e si condividono molte cose/molti punti di vista "al di fuori", mentre sull'ambito del lavoro gli approcci / atteggiamenti / valutazioni, sono completamente diversi, e il lavoro dell'uno dipende da quello dell'altro, ecco che questa può diventare una situazione a forte rischio di "corrosione" (magari solo superficiale, o temporanea) del rapporto

Ma il problema che volevo sollevare, relativamente alle amicizie in senso proprio e pieno, è,

dandogli un altro nome, quello dell'errore. Siamo sicuri che tutto sia così trasparente e lineare,

che le nostre decisioni siano in sé così terse e sensate, o non è questa una risistemazione,

una razionalizzazione, a posteriori?

 

La tua domanda è così controversa che non saprei da dove cominciare una possibile risposta; né se ne sarei capace. Qualcuno, anni fa, notò la sottile natura dell'errore, laddove si contrapponga alla conoscenza, alla retta via, a qualunque cosa, in una parola, noi giudichiamo normale. In cosa è riscontrabile la discrasia? E' piuttosto semplice, l'errore, durante tutta la sua eziologia, fino al manifesto disvelamento, non viene riconosciuto come tale. L'apparire delle nostre decisioni come terse e sensate non è altro che permanenza nell'errore, ascondimento entro il suo stesso seno: è recidività. Per quieto vivere, per comoda irresponsabilità (colpa del caso, di Dio, della necessità..) - un grande placebo. Intendo dire, terse e sensate sono rispetto a che cosa? Nella casistica di decisioni 'errate', la giustificazione ulteriore, il risanamento della ragione è pur sempre un errore; altro che conflitto (dissonanza cognitiva? Festinger, forse?).

 

Il problema è quello dell'errore ... una struttura psicologica che lo genera:

 

Dici?

 

Stando a quanto sotto

Noi non siamo così sovranamente liberi e padroni di noi stessi da poter credere che il movente

delle nostre azioni sia da noi sempre consaputo, visto chiaramente, scelto

 

Come conciliare il riconoscimento di una falla, con l'ignoranza strutturale di un piano generale?

 

Come conciliare il riconoscimento di una falla, con l'ignoranza strutturale di un piano generale?

 

Non credo che nell'ambito della vita - di questo sto parlando - ci sia un piano generale, né in sé

(tutt'al più la «teoria della ghianda» di Hillman: una potenzialità riconoscibile in una serie di eventi

e atteggiamenti che si ripetono e in forma diversa manifestano una costellazione riconoscibile: il

nostro carattere, il nostro daimon, la nostra "essenza"), e neppure costruito da noi, anche se

continuamente ci proviamo. Le nostre falle sono la prova della nostra attività; se dovessimo giudicare

dalle nostre riuscite, non troveremmo mai molto, se non a patto di crearci un grande Mito dell'Io.

Le falle sono ciò che ci sfugge, ciò che è sempre un po' diverso da come lo avremmo voluto, i

nostri stessi "errori", in breve sono le nostre stesse esperienze e una delle cose che ci trasmette di più

il senso della vita, il sentire che viviamo.

 

a proposito delle cause che avversano l'amicizia o tendono a sgretolarla, oltre alle già citate

(su tutte personalmente sentirei di mettere scelte di vita diverse, cambiamento della propria visione

che porta ad allontanarsi), metterei anche il fatto di essere, paradossalmente, "troppo a contatto"

 

questa può diventare una situazione a forte rischio di "corrosione" (magari solo superficiale, o temporanea)

del rapporto

 

Son d'accordo con te, Wolf. Il paradosso dell'amicizia è che, come il sesso, richiede pause. L'eccesso, nelle

amicizie, inaridisce invece di riempire. Sottrae spazio all'immaginazione, e, più semplicemente, al riformarsi del

desiderio di quella persona. Ancora più concretamente, oggi, dopo molte esperienze, penso che poche amicizie

reggano alla prova del lavorare insieme: recentemente ho addirittura pensato che è una fortuna che io e il mio

migliore amico (persona che mi vuol bene e mi stima profondamente, e che io considero un fratello) non

lavoriamo nella stessa sede.

 

Ma le pause dovrebbero favorire la continuità, non causare rottura. Quanto alle strade diverse che si

prendono, alle scelte di vita diverse, sono naturalmente d'accordo anche sul fatto che ciò provoca

spessissimo per non dire sempre la rottura delle amicizie. Ma scusatemi se riporto

l'attenzione su un punto che noi diamo generalmente per scontato: tutto ciò avviene per una causa

ben precisa: «il non riconoscersi più in quello che si era». Ora, è proprio così matematico che noi non ci

dobbiamo più riconoscere in quello che eravamo? A me, oggi, sembra di no, e che sia un limite notevole.

Non esiste la continuità della coscienza, della mia vita, di me come persona? Perché bisogna dipendere così tanto

da una psicologia "eroica" (o "teatrale") che conduce a negare quel che ero? E' infatti questo è alla base

degli abbandoni amicali: non mi riconosco più con Tizio perché non riconosco più me con lui, non mi

riconosco più in quello che facevo con lui.

 

L'ho fatto tante volte anch'io, beninteso. Parlo di un interrogativo che mi è insorto solo molto recentemente.

Non credo che nell'ambito della vita - di questo sto parlando - ci sia un piano generale, né in sé

(tutt'al più la «teoria della ghianda» di Hillman: una potenzialità riconoscibile in una serie di eventi

e atteggiamenti che si ripetono e in forma diversa manifestano una costellazione riconoscibile: il

nostro carattere, il nostro daimon, la nostra "essenza"), e neppure costruito da noi, anche se

continuamente ci proviamo. Le nostre falle sono la prova della nostra attività; se dovessimo giudicare

dalle nostre riuscite, non troveremmo mai molto, se non a patto di crearci un grande Mito dell'Io.

Le falle sono ciò che ci sfugge, ciò che è sempre un po' diverso da come lo avremmo voluto, i

nostri stessi "errori", in breve sono le nostre stesse esperienze e una delle cose che ci trasmette di più

il senso della vita, il sentire che viviamo.

 

Beninteso, sarei l'ultimo terrestre ad ammettere la possibilità di un'armonia prestabilita (lo detesto con tutte le mie forze :)).

 

Su quanto dici sono sostanzialmente d'accordo, al punto di ammettere tutto questo come essenziale negli uomini.

E' probabilmente privo di senso domandare ragione delle strutture isomorfiche tra noi stessi e la realtà, sul loro carattere mutilo, deforme, incompleto.

La questione della frattura tra idealità e fattualità non si risolverà su un forum né altrove, è nostra costitutiva.

 

riporto l'attenzione su un punto che noi diamo generalmente per scontato: tutto ciò avviene per una causa

ben precisa: «il non riconoscersi più in quello che si era». Ora, è proprio così matematico che noi non ci

dobbiamo più riconoscere in quello che eravamo? A me, oggi, sembra di no, e che sia un limite notevole.

Non esiste la continuità della coscienza, della mia vita, di me come persona? Perché bisogna dipendere così tanto

da una psicologia "eroica" (o "teatrale") che conduce a negare quel che ero?

 

Nessuna psicologia 'eroica' invita all'evanescenza della propria storia individuale, al più un potersi costruire in avanti sulla base di quel nostro passato. Siamo esseri-per-il-futuro, progetti aperti a tutte le possibilità. Scegliere significa fare affidamento su fondamenta, abbandonare palafitte di storie non nostre ed edificazione di quel che saremo su quel che siamo stati. Non possiamo sottrarci al divenire, il che equivale a dire che non siamo esenti dal fare esperienza. Ma siamo animali ricettivi, l'esperire ci muta. L'unità della coscienza presupporrebbe un eterno presente ed un piano empirico uniforme. Finché saremo su questo mondo, e finché saremo vivi, evoluzione e divenire saranno la regola.

 

Siamo riusciti brillantemente a fare ancora le tre; a domani il prosieguo. :asd:

 

Ma scusatemi se riporto

l'attenzione su un punto che noi diamo generalmente per scontato: tutto ciò avviene per una causa

ben precisa: «il non riconoscersi più in quello che si era». Ora, è proprio così matematico che noi non ci

dobbiamo più riconoscere in quello che eravamo? A me, oggi, sembra di no, e che sia un limite notevole.

Non esiste la continuità della coscienza, della mia vita, di me come persona? Perché bisogna dipendere così tanto

da una psicologia "eroica" (o "teatrale") che conduce a negare quel che ero? E' infatti questo è alla base

degli abbandoni amicali: non mi riconosco più con Tizio perché non riconosco più me con lui, non mi

riconosco più in quello che facevo con lui.

 

L'ho fatto tante volte anch'io, beninteso. Parlo di un interrogativo che mi è insorto solo molto recentemente.

 

 

c'è una venatura di superomismo quando ti chiedi perché bisogna dipendere da una psicologia "eroica"  :asd:

 

se vogliamo accenare brevemente alla genesi dei rapporti affettivi amicali da un punto di vista psicologico

o almeno per quel poco che ne posso dire io

direi che il concetto chiave è quello di "compensazione"

il rapporto si crea perché si vede in esso un'opportunità di compensare alcune nostre "unilateralità"

che possono essere psicologiche, a volte persino inconsapevoli

ma anche, molto più semplicemente, esterne, visibili, come nel caso in cui l'amicizia serva ad avviare un concreto progetto economico in comune

una volta che la compensazione non sia più necessaria in quanto compiuto il processo di integrazione psicologico di nuovi contenuti

o, facendo riferimento al caso "economico", una volta che io ritenga di non aver più bisogno di stare in società con l'amico

perché penso di poter andare più lontano e più spedito con le mie gambe,

ecco che il rapporto è svuotato di contenuti dall'interno e cessa la sua ragione di esistere

 

credo che in tutto questo il complesso dell'io come tale non ha alcuna scelta se non quella di "assistere" al fenomeno

e di cercare di esserne consapevole

insomma queste cose "accadono", non scegliamo che accadano

c'è una venatura di superomismo quando ti chiedi perché bisogna dipendere da una psicologia "eroica"  :asd:

 

Addirittura?

 

una volta che la compensazione non sia più necessaria in quanto compiuto il processo di integrazione

psicologico di nuovi contenuti o, facendo riferimento al caso "economico", una volta che io ritenga

di non aver più bisogno di stare in società con l'amico perché penso di poter andare più lontano

e più spedito con le mie gambe, ecco che il rapporto è svuotato di contenuti dall'interno

e cessa la sua ragione di esistere

 

Sarà, ma questa spiegazione mi ha tutta l'aria di una razionalizzazione ex post.

Che in un certo senso benedice tutti gli accadimenti senza veramente interrogarsi se le cose siano

andate veramente così. In alcuni casi succede quello che dici tu, ma non in tutti.

 

insomma queste cose "accadono", non scegliamo che accadano

 

In effetti il topic nasceva proprio dall'interrogarsi su alcune cose che accadono.

 

Quanto alla consapevolezza, c'è uno stadio in cui uno diventa consapevole di quel che, di fatto, accade.

Ci può essere anche uno stadio in cui uno, magari a tratti, non è solo spettatore, consapevole o meno,

di questo, ma è in grado di operare cambiamenti, dare inizio a un nuovo modo di porsi,

altrimenti saremmo identici a noi stessi in ogni fase della nostra vita, e forse non è proprio così.

 

Nessuna psicologia 'eroica' invita all'evanescenza della propria storia individuale, al più un potersi costruire in avanti sulla base di quel nostro passato. Siamo esseri-per-il-futuro, progetti aperti a tutte le possibilità. Scegliere significa fare affidamento su fondamenta, abbandonare palafitte di storie non nostre ed edificazione di quel che saremo su quel che siamo stati. Non possiamo sottrarci al divenire, il che equivale a dire che non siamo esenti dal fare esperienza. Ma siamo animali ricettivi, l'esperire ci muta. L'unità della coscienza presupporrebbe un eterno presente ed un piano empirico uniforme. Finché saremo su questo mondo, e finché saremo vivi, evoluzione e divenire saranno la regola.

 

Sono d'accordo con quel che dici. Ma è proprio perché il divenire è la dimensione portante dell'esperienza, dell'esperire

psichico, del vivere, che si potrebbe aggirare la psicologia eroica in quel tanto di fissità che essa impone. Questo era

quel che volevo dire.

Sono d'accordo con quel che dici. Ma è proprio perché il divenire è la dimensione portante dell'esperienza, dell'esperire

psichico, del vivere, che si potrebbe aggirare la psicologia eroica in quel tanto di fissità che essa impone. Questo era

quel che volevo dire.

 

Non mi è affatto chiaro ove tu intraveda fissità.  :asd:

Hinzelmann

Ecco perché non posso essere del tutto d'accordo con Hinzelmann qunado scrive che Indubbiamente il mio gruppo è stato formativo, ma la formazione più importante che mi ha dato è stata all'affettività propria di un essere umano-soggetto indipendente da vincoli (leggasi amore dovuto alla famiglia). Per me ne è prova che molti di quei rapporti durano tuttora, con modi e tempi e ritmi diversi, ovviamente. 

 

Non pensavo alla formazione come agronomo...pensavo proprio alla formazione come soggetto autonomo.

Esperienza unica ed irripetibile, da cui necessariamente scaturiscono emozioni ed affetti intensi, per certi

versi un legame speciale di complicità ,che dura oltre il necessario mutamento del rapporto.

 

L'intensità di una esperienza non deperisce necessariamente in nostalgia, se resta la complicità che

quell'esperienza ha determinato.

toraepantote

Molto interessante, oltre che complessa, l’analisi che avete condotto fino a questo punto.

 

Mi rendo conto che l’argomento è già stato ampiamente discusso ma volevo riportare la mia esperienza personale sul fattore distanza come causa della svalutazione .

 

Fino a qualche anno prima di trasferirmi facevo parte di un gruppo consistente di amici, con alcuni di loro l’amicizia è nata  nei banchi delle elementari. Devo dire che sebbene la frequentazione con queste persone ed  in particolare con una, fosse assidua, in realtà sentivo che rimaneva tra di noi una “distanza” (interiore) che non mi permetteva di identificarle come amiche nel senso più alto del termine (attenzione, mutuo soccorso, empatia, complicità o più semplicemente l’amore, che comprende tutto questo). Questa velata consapevolezza mi faceva sentire nei loro confronti una “traditrice”. Soprattutto quando alcune di loro mi identificavano come “migliore amica”. Per me non era così.

All’epoca però non riuscivo a spiegarmi fino in fondo il perché di questa “distanza”, incolmabile. Pensavo di peccare di eccessiva razionalità e algidità emotiva, ma con il trasferimento (quindi con l'allontanamento fisico) e mettendo a fuoco meglio quelle persone, mi sono resa conto che in realtà molti aspetti del loro carattere e del modo di fare stridevano con alcuni dei miei valori e che ciò che ci "divideva" aveva un peso maggiore rispetto a ciò che ci "univa". Mi sono sorpresa di come all’epoca sia riuscita a tollerare certe attitudini e comportamenti (forse per una questione di sopravvivenza nel gruppo, inconsciamente tendiamo ad "esaltare" gli aspetti positivi e minimizzare quelli negativi).

Quanto alla consapevolezza, c'è uno stadio in cui uno diventa consapevole di quel che, di fatto, accade.

Ci può essere anche uno stadio in cui uno, magari a tratti, non è solo spettatore, consapevole o meno,

di questo, ma è in grado di operare cambiamenti, dare inizio a un nuovo modo di porsi,

altrimenti saremmo identici a noi stessi in ogni fase della nostra vita, e forse non è proprio così.

 

quello che differenzia il mio punto di vista dal tuo è che secondo me i rapporti affettivi non sono sotto l'imperio dell'io

pertanto non c'è alcuna possibilità di cambiare le cose su base "volontaria"

(ecco, la traccia di superomismo nel tuo pensiero di cui ti dicevo è secondo me questa idea di poter attuare cambiamenti "volontari" sulle cose del cuore)

possiamo solo cercare (a fatica, spesso) di essere consapevoli e quindi di integrarli come contenuti coscienti

ma questo, e sono d'accordo con te, è un esercizio quasi sempre "ex-post"

tranne che nelle poche persone per cui vale un costante e indisturbato "conosci te stesso" o "ricorda te stesso", ma questi sono degli illuminati

noi comuni mortali domandiamoci francamente: siamo davvero consapevoli dei motivi per cui in passato si sono interrotte molte amicizie?

e crediamo davvero che ci sia stato un momento in cui questo processo sarebbe stato governabile con esiti diversi?

 

non ti seguo invece sulla tua frase finale

in realtà non siamo mai identici a noi stessi proprio perché alcuni contenuti essenziali di noi mutano in totale autonomia e spesso inconsapevolezza rispetto all'io

e ne esperiamo spesso gli stupefacenti risultati come se avvenissero a qualcun altro... a tal punto che molti li proiettano esternamente  :asd:

quello che differenzia il mio punto di vista dal tuo è che secondo me i rapporti affettivi non sono sotto l'imperio dell'io

pertanto non c'è alcuna possibilità di cambiare le cose su base "volontaria"

(ecco, la traccia di superomismo nel tuo pensiero di cui ti dicevo è secondo me questa idea di poter attuare cambiamenti "volontari" sulle cose del cuore)

 

 

Io credo che una persona che abbia una certa conoscenza di sé, della propria psiche,

che sia abituata a riflettere su esperienze proprie o anche di persone molto vicine, possa tentare, anzi

sia motivata a tentare, di operare piccoli, probabilmente minuscoli e puramente tentativi, mutamenti di

atteggiamento psicologico. Il meccanismo di cui parlo è quello

che hanno conosciuto tutti quelli che, ad esempio, hanno fatto un'analisi, ed è molto difficile

spiegarlo a parole. Non si tratta di "Volontà": è un moto molto più complesso, più globale,

che investe varie zone di sé, e mette in moto varie funzioni psichiche.

 

non ti seguo invece sulla tua frase finale

in realtà non siamo mai identici a noi stessi proprio perché alcuni contenuti essenziali

di noi mutano in totale autonomia e spesso inconsapevolezza rispetto all'io

e ne esperiamo spesso gli stupefacenti risultati come se avvenissero a qualcun altro...

a tal punto che molti li proiettano esternamente  :)

 

 

Va bene, ma parliamo di noi. Tu ti limiti a proiettare esternamente? I cambiamenti li esperisci

come se avvenissero a qualcun altro?

Io no. I meccanismi di inconsceità esistono eccome, ma noi abbiamo sempre contemporaneamente

la possibilità di elaborarli, sia pure solo parzialmente, e in un processo tendenzialmente senza fine.

 

 

volevo riportare la mia esperienza personale sul fattore distanza come causa della svalutazione .

 

 

Mi sembra che nel tuo caso ci sia stato una doppia funzione della «distanza». Quella psicologica, emotiva,

affettiva, ha funzionato come campanello d'allarme, rivelatore di una tua alterità come persona e

sul piano dei valori. In quel caso la distanza era la giusta tua reazione a un rapporto o a dei rapporti che erano

parzialmente confusi e non ti permettevano di vedere fin dove tu vi aderivi veramente, e soprattutto perché

non vi aderivi completamente. Il fatto che tu non sapessi e potessi risponderti generava complessi di colpa,

contraccolpi accusatori. Quando è venuta, la risposta a questo perché ha viceversa coinciso con una maggiore

conoscenza di te, di territori di te, che prima erano leggermente sommersi. La distanza fisica ti ha permesso di

oggettivare quello che era un monte di esperienze con qualche elemento di confusività, e probabilmente di far

funzionare non in modo «algido» una tua natura razionale che poi si è espressa in modo «conoscitivo».

 

Non mi è affatto chiaro ove tu intraveda fissità.  :asd:

 

«Quel tanto di fissità», avevo detto. Non c'è alcunché di fisso in un ideale eroico dell'Io?

Direi che deve esserci per forza. Tutto il costruire, il proiettarsi, il divenire, la progettazione, l'essere aperti

a tutte le esperienze, di cui l'Io si carica, presuppongono quanto meno quel «fare affidamento sulle fondamenta»

di cui tu stesso parli. E anche una bella fatica, perseveranza, mirare sempre a una meta, non deflettere né

smosciarsi. Una metafora calzante è che l'ideale eroico dell'Io è uno stato di perenne erezione.

Silverselfer

 << Tutto il costruire, il proiettarsi, il divenire, la progettazione, l'essere aperti

a tutte le esperienze, di cui l'Io si carica (..) E anche una bella fatica, perseveranza, mirare sempre a una meta, non deflettere né smosciarsi. Una metafora calzante è che l'ideale eroico dell'Io è uno stato di perenne erezione >>

 

Oh, Isher, finalmente hai scritto qualcosa che ho capito persino io!

 

Personalmente la penso esattamente come l'amica di Ischer. Divento amico di una persona che mi fa star bene, con cui non devo chiedermi "perché sto qui?", con cui anche i silenzi in un certo senso parlano. Si allieva il peso stremante della noia.

 

Quando e perché finisce un'amicizia? Direi che le cose iniziano a andar male quando si cominciano ad ascoltare certi discorsi come quelli che ho letto qui. L'amicizia è una farfalla che ha bisogno di lievità per svolazzare di fiore in fiore, o se preferite, superficialità. Con questo non voglio dire che non bisogna voler bene ad un amico, ma comiciare a fargli paranoie del tipo: "non ti fai più sentire", "oramai esci solo con gli altri", "un rapporto amicale è basato sulla reciprocità". Uh, ipotizzare una situazione del genere già mi fa mancare l'aria.

 

Amici veri, quelli che contano li porto sempre con me (anche se non li chiamo mai), poi basta un pomeriggio per ritrovarli e quindi riperderli, c'est la vie! L'unico modo di trattenerli sarebbe inchiodarli con uno spillo su una bacheca per la propria collezione fi farfalle "umane" :pausa:

 

Siamo solo individui che possono condividere la propria solitudine in amicizia, perché voler razionalizzare sempre tutto?

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