D. Posted July 6, 2010 Share Posted July 6, 2010 non è particolarmente significativo insistere sul movente economico delle azioni Altroché; di romanticismi proprio non se ne può più. :) Ritorniamo in topic, de amicitia ?Magari domani? Magari domani. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
conrad65 Posted July 6, 2010 Share Posted July 6, 2010 i legami frutto di libera scelta (quindi escludendo quelli parentali) sono sempre stati, per me, motivati da un progetto comune o dalla percezione di un progetto potenziale il progetto motiva e muove l'affettività quindi a mio avviso la gratuità non c'è questo equilibrio è molto complicato infatti non è detto che il progetto sia condiviso da entrambe le parti o che ne sia percepita da entrambe le parti la sua "giustezza" la durata di questo progetto comune, e il suo sapersi trasformare nel tempo in sintonia con la crescita di entrambi è la base della durata del rapporto se il progetto vive, qualsiasi ostacolo può essere superato se il progetto muore, muore o si affievolisce anche il sentimento che lo cementava per progetto non intendo affatto (almeno non necessariamente) un progetto economico ad esempio le amicizie adolescenziali hanno sotteso un progetto di crescita e di sperimentazione comune delle cose e del mondo quindi in questo caso è un progetto "affettivo" ma non trascurerei anche la forza di altri tipi di progetti ad esempio trovare una complementarietà di capacità ed una unità di obiettivi da cementare in un progetto economico come la fondazione di una società aggiungo che per noi gay esiste a mio avviso un problema in più nel senso che per un gay l'amicizia maschile conserva sempre un substrato ambiguo che la può fare "oscillare" a volte verso l'attrazione fisica lo stesso può accadere con l'amicizia femminile: in tal caso, per quanto si possa chiarire la propria tendensa sessuale, rimane a mio avviso sempre una certa ambiguità di fondo che, almeno per me, ha reso l'amicizia con donne ancora più difficile e complicata di quella con uomini Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Hinzelmann Posted July 6, 2010 Share Posted July 6, 2010 Che discorsi complicati che fate... Il progetto a me pare funzionare come occasione d'incontro, tipo fare un viaggio insieme ( qualcosa di delimitato ) poi è l'esperienza in sè, se piacevole, a smuovere l'affettività. Le amicizie adolescenziali le considererei più formative in senso stretto, che affettive. In questo senso sono direi "uniche". Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Isher Posted July 6, 2010 Author Share Posted July 6, 2010 @ Conrad anche per me i rapporti sono quasi sempre motivati da progetti comuni, da intese su cose essenziali, eccetera. La riflessione però nasceva dalla considerazione che ogni amicizia che ha una genesi di questo tipo (o analoga: ad esempio vivere una determinata esperienza comune) è, spesso, destinata a decadere quando noi cambiamo. Perchè si cambia, e se l'amicizia nasceva dalla condivisione di qualcosa (progetto, interesse, esperienza) è difficile che resista quando questo qualcosa è superato da un altro e poi un altro ancora. Non a caso la mia amica, donna, parlava di «gratuità», e d'altra parte citava, specularmente, il «non riconoscersi più in quello che si era». Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
gianduiotto Posted July 6, 2010 Share Posted July 6, 2010 @Isher Ho riflettuto un bel po' prima di rispondre perchè volevo chiarimi bene le idee. Ho tirato fuori un vecchio fantasma del passato e sono venuti fuori il ricordo di un'emozione e di un senso di dispiacere tali e quali a come erano stati "archiviati" in memoria all'epoca di miei 19 anni. Mi sono reso conto che mentre scrivevo colui che non ha compreso ed accettato la scelta legittima e coraggiosa di un amico parlava l'uomo che sono oggi. Al contrario mentre scrivevocolui che non è stato capace di dire una parola chiara e giusta in sua difesa parlava il ragazzo di tanto tempo fa. Giustamente scrivi Non so il tuo episodio, ma forse il non aver accettato quella scelta per carità legittima è anche il segno che non ti corrispondeva,che non è la tua verità, al fondo, quindi l'avresti solo subita. Quella scelta allora non mi corrispondeva nel senso che condividerla con lui avrebbe implicato, almeno allora così pensavo, l'esclusione dal gruppo dei pari; che nella mia testa di diciannovenne equivaleva alla morte sociale. Il mio amico allora ha fatto terra bruciata dietro di sè, cancellando oltre a me, anche un bel pezzo delle sue amicizie. Dal canto mio quel che rilettendoci mi è parso di concludere è che il vero rammarico non sia tanto la fine di un rapporto ( vista a posteriori sarebbe comunque stato inevitabile) quanto il fatto che in quel momento io per vigliaccheria e per non espormi agli occhi del gruppo, non abbia cercato un confronto diretto, un chiarimento, una spiegazione. Insomma che non lo abbia nemmeno cercato per chiedergli perchè e dirgli io comunque ci sono . Tornando in argomento si è discusso di gratuità (e in contrapposizione ad essa di movente economico), dell'amicizia. Nella speranza di aver afferrato almeno qualcosa di giusto delle dotte dissertazioni di cui sopra, mi permetto di aggiungere che , secondo me esiste un intersse legittimo nel rapporto di amicizia. Esso è un rapporto fra pari. E' la comunione (che parola cattolica ho scelto ) reciproca di una parte di sè. La gratuità riside nel fatto che spontaneamente doniamo qualcosa di noi stessi. Ma per essere amici qualcosa dobbiamo donare e specularmente qualcosa di sè il nostro amico deve mettere in comunione con noi. L'amicizia rischia di finire quando uno dei due va oltre questo interesse legittimo: quando ad esempio si intende manipolare o sopraffare l'altro, o quando per mutate condizioni ambientali non si ha più voglia di portare avanti il rapporto. Parlo espressamente di volontà, sulla base della mia personale esperienza: vivendo da tempo in una città diversa e distante da quella in cui sono nato, posso dire che molti degli amici di quando ero ragazzo ( il gruppo dei pari cui facevo riferimento prima) sono amici tutt'ora. La mia migliore amica è sempre lei da quando avevo 15 anni. Potevo sparire e non l'ho fatto perchè non l'ho voluto fare. Ecco perchè non posso essere del tutto d'accordo con Hinzelmann qunado scrive che Le amicizie adolescenziali le considerereipiù formative in senso stretto, che affettive. Indubbiamente il mio gruppo è stato formativo, ma la formazione più importante che mi ha dato è stata all'affettività propria di un essere umano-soggetto indipendente da vincoli (leggasi amore dovuto alla famiglia). Per me ne è prova che molti di quei rapporti durano tuttora, con modi e tempi e ritmi diversi, ovviamente. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Isher Posted July 6, 2010 Author Share Posted July 6, 2010 Quella scelta allora non mi corrispondeva nel senso che condividerla con lui avrebbe implicato, almeno allora così pensavo, l'esclusione dal gruppo dei pari; che nella mia testa di diciannovenne equivaleva alla morte sociale. Il mio amico allora ha fatto terra bruciata dietro di sè, cancellando oltre a me, anche un bel pezzo delle sue amicizie. Dal canto mio quel che rilettendoci mi è parso di concludere è che il vero rammarico non sia tanto la fine di un rapporto ( vista a posteriori sarebbe comunque stato inevitabile) quanto il fatto che in quel momento io per vigliaccheria e per non espormi agli occhi del gruppo, non abbia cercato un confronto diretto, un chiarimento, una spiegazione. Insomma che non lo abbia nemmeno cercato per chiedergli perché e dirgli io comunque ci sono . Sono contento di sapere che la riflessione su quella mia frase ti abbia portato a comprendere e dividere i vari aspetti di questa storia e di quell'emozione cumulativa. Ora ti dico quale riflessione ed emozione suscita in me la tua storia. L'adolescenza è un periodo ferino della vita di una persona. I timori di esclusione, di morte civile, che avevi, erano probabilmente più che giustificati, e tu hai ritenuto di doverti difendere. Ti rammarichi di non essere stato più Soggetto, e su questo ti seguo e ti dò ragione. Ma se quel tuo amico è stato capace di fare terra bruciata a quel modo, forse non ti assomiglia molto. Si ritorna al tema del mio topic, che amicizia e omicidio affettivo vanno di pari passo nella vita, e che si compiono questi ultimi perché non si sopporta di non essere identici (il che non è molto evoluto) secondo me esiste un interesse legittimo nel rapporto di amicizia. Esso è un rapporto fra pari. E' la comunione (che parola cattolica ho scelto ) reciproca di una parte di sè. La gratuità riside nel fatto che spontaneamente doniamo qualcosa di noi stessi. Ma per essere amici qualcosa dobbiamo donare e specularmente qualcosa di sè il nostro amico deve mettere in comunione con noi. L'amicizia rischia di finire quando uno dei due va oltre questo interesse legittimo Sono totalmente d'accordo con te. Trovo giustissimi i concetti di rapporto tra pari e interesse legittimo. E' una concezione laica, proprio nello slancio e nell'impulso a dare una parte di sé e a ricevere e richiedere analoga donazione. E' un patto. Quindi qui il mio discorso si ricollega a quanto dicevo sopra: bisogna essere capaci di vedere le cose in quest'ottica e di fare questo patto, e non tutti lo sono. Ma comunione non è parola cattolica: è parola greca, syn-ousia. Essere-con. Una precisazione: credo che la mia amica con «gratuità» volesse significare un altro concetto: il puro piacere di vivere gli incontri senza bisogno di giustificazioni troppo pressanti; l'aderire a quello che ci si presenta e ci piace e dirgli : sì. In effetti le mediazioni superegoiche, seppure istantanee e in parte inconsce, pongono mille interdetti a ogni soddisfazione di impulsi (non solo sessuali). Per questo guadagnare una buona dose di gratuità significa essere più liberi. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
D. Posted July 6, 2010 Share Posted July 6, 2010 Sono totalmente d'accordo con te. Trovo giustissimi i concetti di rapporto tra pari e interesse legittimo.E' una concezione laica, proprio nello slancio e nell'impulso a dare una parte di sé e a ricevere e richiedere analoga donazione. E' un patto. Quindi qui il mio discorso si ricollega a quanto dicevo sopra: bisogna essere capaci di vedere le cose in quest'ottica e di fare questo patto, e non tutti lo sono. Esatto, è un patto societario, nel senso proprio etimologico del termine, ovvero unione ma anche convenzione tra parti. Senza alcun dubbio, Gian ha colto segno individuando il concetto di interesse legittimo, od altrimenti l'obbedienza ad un principio economico che mi spinge a dare e profondere onde io possa ricevere altro a mio miglior giovamento. La dinamica triadica pare essere chiara: quel che davvero interessa in questo topic, non sono le parti costituenti, ma la relazione in sé presa. Un amico mette di sé, o intero se stesso, non a disposizione di altri, ma della relazione. E' all'interno di questa (comunione, giustamente) che i giochi si svolgono; fuori, smette l'amicizia. L'adesione al patto originario si riassume nella comunanza degli scopi, nell'intesa del procedere. Ma una società (ed intendo impresa) è più che protensione verso il futuro, è anche spartizione di utili qui ed ora. E' un accordo tra breve e lungo periodo. In un tempo sufficientemente lungo i miei interessi e quelli della relazione potrebbero divergere, senza per questo ingenerare stupore. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Isher Posted July 6, 2010 Author Share Posted July 6, 2010 Ma una società (ed intendo impresa) è più che protensione verso il futuro, è anche spartizione di utili qui ed ora. E' un accordo tra breve e lungo periodo. In un tempo sufficientemente lungo i miei interessi e quelli della relazione potrebbero divergere, senza per questo ingenerare stupore. E' una conclusione del tutto legittima. Del resto noi l'applichiamo mille volte nel corso della nostra vita, questa rottura di rapporti e intese non più attuali, non più soddisfacenti. Ma il problema che volevo sollevare, relativamente alle amicizie in senso proprio e pieno, è, dandogli un altro nome, quello dell'errore. Siamo sicuri che tutto sia così trasparente e lineare, che le nostre decisioni siano in sé così terse e sensate, o non è questa una risistemazione, una razionalizzazione, a posteriori? Il problema è quello dell'errore. E più in generale di una struttura psicologica che lo genera: le «forse avverse» del mio titolo. Noi non siamo così sovranamente liberi e padroni di noi stessi da poter credere che il movente delle nostre azioni sia da noi sempre consaputo, visto chiaramente, scelto; che ogni nostra azione sia una scelta: siamo anche persone perennemente perfettibili e la conoscenza che abbiamo di noi stessi è spesso un'ombra che viene dopo, e che si tratta di agguantare, non senza fatica. Con questo non voglio affatto dire che questa configurazione regna sovrana sulle nostre azioni, ma che non è estranea ad esse. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Wolf Posted July 6, 2010 Share Posted July 6, 2010 Ritornerò un attimo alla domanda posta da Isher in apertura di thread ma a proposito delle cause che avversano l'amicizia o tendono a sgretolarla, oltre alle già citate (su tutte personalmente sentirei di mettere scelte di vita diverse, cambiamento della propria visione che porta ad allontanarsi), metterei anche il fatto di essere, paradossalmente, "troppo a contatto" Intendo, ad esempio, nel campo del lavoro: avere tutti i giorni al proprio fianco un amico può diventare molto complicato; se infatti, con lui ci si trova bene negli aspetti più "ludici" e si condividono molte cose/molti punti di vista "al di fuori", mentre sull'ambito del lavoro gli approcci / atteggiamenti / valutazioni, sono completamente diversi, e il lavoro dell'uno dipende da quello dell'altro, ecco che questa può diventare una situazione a forte rischio di "corrosione" (magari solo superficiale, o temporanea) del rapporto Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
D. Posted July 6, 2010 Share Posted July 6, 2010 Ma il problema che volevo sollevare, relativamente alle amicizie in senso proprio e pieno, è,dandogli un altro nome, quello dell'errore. Siamo sicuri che tutto sia così trasparente e lineare, che le nostre decisioni siano in sé così terse e sensate, o non è questa una risistemazione, una razionalizzazione, a posteriori? La tua domanda è così controversa che non saprei da dove cominciare una possibile risposta; né se ne sarei capace. Qualcuno, anni fa, notò la sottile natura dell'errore, laddove si contrapponga alla conoscenza, alla retta via, a qualunque cosa, in una parola, noi giudichiamo normale. In cosa è riscontrabile la discrasia? E' piuttosto semplice, l'errore, durante tutta la sua eziologia, fino al manifesto disvelamento, non viene riconosciuto come tale. L'apparire delle nostre decisioni come terse e sensate non è altro che permanenza nell'errore, ascondimento entro il suo stesso seno: è recidività. Per quieto vivere, per comoda irresponsabilità (colpa del caso, di Dio, della necessità..) - un grande placebo. Intendo dire, terse e sensate sono rispetto a che cosa? Nella casistica di decisioni 'errate', la giustificazione ulteriore, il risanamento della ragione è pur sempre un errore; altro che conflitto (dissonanza cognitiva? Festinger, forse?). Il problema è quello dell'errore ... una struttura psicologica che lo genera: Dici? Stando a quanto sotto Noi non siamo così sovranamente liberi e padroni di noi stessi da poter credere che il moventedelle nostre azioni sia da noi sempre consaputo, visto chiaramente, scelto Come conciliare il riconoscimento di una falla, con l'ignoranza strutturale di un piano generale? Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Isher Posted July 7, 2010 Author Share Posted July 7, 2010 Come conciliare il riconoscimento di una falla, con l'ignoranza strutturale di un piano generale? Non credo che nell'ambito della vita - di questo sto parlando - ci sia un piano generale, né in sé (tutt'al più la «teoria della ghianda» di Hillman: una potenzialità riconoscibile in una serie di eventi e atteggiamenti che si ripetono e in forma diversa manifestano una costellazione riconoscibile: il nostro carattere, il nostro daimon, la nostra "essenza"), e neppure costruito da noi, anche se continuamente ci proviamo. Le nostre falle sono la prova della nostra attività; se dovessimo giudicare dalle nostre riuscite, non troveremmo mai molto, se non a patto di crearci un grande Mito dell'Io. Le falle sono ciò che ci sfugge, ciò che è sempre un po' diverso da come lo avremmo voluto, i nostri stessi "errori", in breve sono le nostre stesse esperienze e una delle cose che ci trasmette di più il senso della vita, il sentire che viviamo. a proposito delle cause che avversano l'amicizia o tendono a sgretolarla, oltre alle già citate (su tutte personalmente sentirei di mettere scelte di vita diverse, cambiamento della propria visione che porta ad allontanarsi), metterei anche il fatto di essere, paradossalmente, "troppo a contatto" questa può diventare una situazione a forte rischio di "corrosione" (magari solo superficiale, o temporanea) del rapporto Son d'accordo con te, Wolf. Il paradosso dell'amicizia è che, come il sesso, richiede pause. L'eccesso, nelle amicizie, inaridisce invece di riempire. Sottrae spazio all'immaginazione, e, più semplicemente, al riformarsi del desiderio di quella persona. Ancora più concretamente, oggi, dopo molte esperienze, penso che poche amicizie reggano alla prova del lavorare insieme: recentemente ho addirittura pensato che è una fortuna che io e il mio migliore amico (persona che mi vuol bene e mi stima profondamente, e che io considero un fratello) non lavoriamo nella stessa sede. Ma le pause dovrebbero favorire la continuità, non causare rottura. Quanto alle strade diverse che si prendono, alle scelte di vita diverse, sono naturalmente d'accordo anche sul fatto che ciò provoca spessissimo per non dire sempre la rottura delle amicizie. Ma scusatemi se riporto l'attenzione su un punto che noi diamo generalmente per scontato: tutto ciò avviene per una causa ben precisa: «il non riconoscersi più in quello che si era». Ora, è proprio così matematico che noi non ci dobbiamo più riconoscere in quello che eravamo? A me, oggi, sembra di no, e che sia un limite notevole. Non esiste la continuità della coscienza, della mia vita, di me come persona? Perché bisogna dipendere così tanto da una psicologia "eroica" (o "teatrale") che conduce a negare quel che ero? E' infatti questo è alla base degli abbandoni amicali: non mi riconosco più con Tizio perché non riconosco più me con lui, non mi riconosco più in quello che facevo con lui. L'ho fatto tante volte anch'io, beninteso. Parlo di un interrogativo che mi è insorto solo molto recentemente. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
D. Posted July 7, 2010 Share Posted July 7, 2010 Non credo che nell'ambito della vita - di questo sto parlando - ci sia un piano generale, né in sé (tutt'al più la «teoria della ghianda» di Hillman: una potenzialità riconoscibile in una serie di eventi e atteggiamenti che si ripetono e in forma diversa manifestano una costellazione riconoscibile: il nostro carattere, il nostro daimon, la nostra "essenza"), e neppure costruito da noi, anche se continuamente ci proviamo. Le nostre falle sono la prova della nostra attività; se dovessimo giudicare dalle nostre riuscite, non troveremmo mai molto, se non a patto di crearci un grande Mito dell'Io. Le falle sono ciò che ci sfugge, ciò che è sempre un po' diverso da come lo avremmo voluto, i nostri stessi "errori", in breve sono le nostre stesse esperienze e una delle cose che ci trasmette di più il senso della vita, il sentire che viviamo. Beninteso, sarei l'ultimo terrestre ad ammettere la possibilità di un'armonia prestabilita (lo detesto con tutte le mie forze :)). Su quanto dici sono sostanzialmente d'accordo, al punto di ammettere tutto questo come essenziale negli uomini. E' probabilmente privo di senso domandare ragione delle strutture isomorfiche tra noi stessi e la realtà, sul loro carattere mutilo, deforme, incompleto. La questione della frattura tra idealità e fattualità non si risolverà su un forum né altrove, è nostra costitutiva. riporto l'attenzione su un punto che noi diamo generalmente per scontato: tutto ciò avviene per una causaben precisa: «il non riconoscersi più in quello che si era». Ora, è proprio così matematico che noi non ci dobbiamo più riconoscere in quello che eravamo? A me, oggi, sembra di no, e che sia un limite notevole. Non esiste la continuità della coscienza, della mia vita, di me come persona? Perché bisogna dipendere così tanto da una psicologia "eroica" (o "teatrale") che conduce a negare quel che ero? Nessuna psicologia 'eroica' invita all'evanescenza della propria storia individuale, al più un potersi costruire in avanti sulla base di quel nostro passato. Siamo esseri-per-il-futuro, progetti aperti a tutte le possibilità. Scegliere significa fare affidamento su fondamenta, abbandonare palafitte di storie non nostre ed edificazione di quel che saremo su quel che siamo stati. Non possiamo sottrarci al divenire, il che equivale a dire che non siamo esenti dal fare esperienza. Ma siamo animali ricettivi, l'esperire ci muta. L'unità della coscienza presupporrebbe un eterno presente ed un piano empirico uniforme. Finché saremo su questo mondo, e finché saremo vivi, evoluzione e divenire saranno la regola. Siamo riusciti brillantemente a fare ancora le tre; a domani il prosieguo. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
conrad65 Posted July 7, 2010 Share Posted July 7, 2010 Ma scusatemi se riporto l'attenzione su un punto che noi diamo generalmente per scontato: tutto ciò avviene per una causa ben precisa: «il non riconoscersi più in quello che si era». Ora, è proprio così matematico che noi non ci dobbiamo più riconoscere in quello che eravamo? A me, oggi, sembra di no, e che sia un limite notevole. Non esiste la continuità della coscienza, della mia vita, di me come persona? Perché bisogna dipendere così tanto da una psicologia "eroica" (o "teatrale") che conduce a negare quel che ero? E' infatti questo è alla base degli abbandoni amicali: non mi riconosco più con Tizio perché non riconosco più me con lui, non mi riconosco più in quello che facevo con lui. L'ho fatto tante volte anch'io, beninteso. Parlo di un interrogativo che mi è insorto solo molto recentemente. c'è una venatura di superomismo quando ti chiedi perché bisogna dipendere da una psicologia "eroica" se vogliamo accenare brevemente alla genesi dei rapporti affettivi amicali da un punto di vista psicologico o almeno per quel poco che ne posso dire io direi che il concetto chiave è quello di "compensazione" il rapporto si crea perché si vede in esso un'opportunità di compensare alcune nostre "unilateralità" che possono essere psicologiche, a volte persino inconsapevoli ma anche, molto più semplicemente, esterne, visibili, come nel caso in cui l'amicizia serva ad avviare un concreto progetto economico in comune una volta che la compensazione non sia più necessaria in quanto compiuto il processo di integrazione psicologico di nuovi contenuti o, facendo riferimento al caso "economico", una volta che io ritenga di non aver più bisogno di stare in società con l'amico perché penso di poter andare più lontano e più spedito con le mie gambe, ecco che il rapporto è svuotato di contenuti dall'interno e cessa la sua ragione di esistere credo che in tutto questo il complesso dell'io come tale non ha alcuna scelta se non quella di "assistere" al fenomeno e di cercare di esserne consapevole insomma queste cose "accadono", non scegliamo che accadano Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Isher Posted July 7, 2010 Author Share Posted July 7, 2010 c'è una venatura di superomismo quando ti chiedi perché bisogna dipendere da una psicologia "eroica" Addirittura? una volta che la compensazione non sia più necessaria in quanto compiuto il processo di integrazione psicologico di nuovi contenuti o, facendo riferimento al caso "economico", una volta che io ritenga di non aver più bisogno di stare in società con l'amico perché penso di poter andare più lontano e più spedito con le mie gambe, ecco che il rapporto è svuotato di contenuti dall'interno e cessa la sua ragione di esistere Sarà, ma questa spiegazione mi ha tutta l'aria di una razionalizzazione ex post. Che in un certo senso benedice tutti gli accadimenti senza veramente interrogarsi se le cose siano andate veramente così. In alcuni casi succede quello che dici tu, ma non in tutti. insomma queste cose "accadono", non scegliamo che accadano In effetti il topic nasceva proprio dall'interrogarsi su alcune cose che accadono. Quanto alla consapevolezza, c'è uno stadio in cui uno diventa consapevole di quel che, di fatto, accade. Ci può essere anche uno stadio in cui uno, magari a tratti, non è solo spettatore, consapevole o meno, di questo, ma è in grado di operare cambiamenti, dare inizio a un nuovo modo di porsi, altrimenti saremmo identici a noi stessi in ogni fase della nostra vita, e forse non è proprio così. Nessuna psicologia 'eroica' invita all'evanescenza della propria storia individuale, al più un potersi costruire in avanti sulla base di quel nostro passato. Siamo esseri-per-il-futuro, progetti aperti a tutte le possibilità. Scegliere significa fare affidamento su fondamenta, abbandonare palafitte di storie non nostre ed edificazione di quel che saremo su quel che siamo stati. Non possiamo sottrarci al divenire, il che equivale a dire che non siamo esenti dal fare esperienza. Ma siamo animali ricettivi, l'esperire ci muta. L'unità della coscienza presupporrebbe un eterno presente ed un piano empirico uniforme. Finché saremo su questo mondo, e finché saremo vivi, evoluzione e divenire saranno la regola. Sono d'accordo con quel che dici. Ma è proprio perché il divenire è la dimensione portante dell'esperienza, dell'esperire psichico, del vivere, che si potrebbe aggirare la psicologia eroica in quel tanto di fissità che essa impone. Questo era quel che volevo dire. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
D. Posted July 7, 2010 Share Posted July 7, 2010 Sono d'accordo con quel che dici. Ma è proprio perché il divenire è la dimensione portante dell'esperienza, dell'esperirepsichico, del vivere, che si potrebbe aggirare la psicologia eroica in quel tanto di fissità che essa impone. Questo era quel che volevo dire. Non mi è affatto chiaro ove tu intraveda fissità. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Hinzelmann Posted July 7, 2010 Share Posted July 7, 2010 Ecco perché non posso essere del tutto d'accordo con Hinzelmann qunado scrive che Indubbiamente il mio gruppo è stato formativo, ma la formazione più importante che mi ha dato è stata all'affettività propria di un essere umano-soggetto indipendente da vincoli (leggasi amore dovuto alla famiglia). Per me ne è prova che molti di quei rapporti durano tuttora, con modi e tempi e ritmi diversi, ovviamente. Non pensavo alla formazione come agronomo...pensavo proprio alla formazione come soggetto autonomo. Esperienza unica ed irripetibile, da cui necessariamente scaturiscono emozioni ed affetti intensi, per certi versi un legame speciale di complicità ,che dura oltre il necessario mutamento del rapporto. L'intensità di una esperienza non deperisce necessariamente in nostalgia, se resta la complicità che quell'esperienza ha determinato. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
toraepantote Posted July 7, 2010 Share Posted July 7, 2010 Molto interessante, oltre che complessa, l’analisi che avete condotto fino a questo punto. Mi rendo conto che l’argomento è già stato ampiamente discusso ma volevo riportare la mia esperienza personale sul fattore distanza come causa della svalutazione . Fino a qualche anno prima di trasferirmi facevo parte di un gruppo consistente di amici, con alcuni di loro l’amicizia è nata nei banchi delle elementari. Devo dire che sebbene la frequentazione con queste persone ed in particolare con una, fosse assidua, in realtà sentivo che rimaneva tra di noi una “distanza” (interiore) che non mi permetteva di identificarle come amiche nel senso più alto del termine (attenzione, mutuo soccorso, empatia, complicità o più semplicemente l’amore, che comprende tutto questo). Questa velata consapevolezza mi faceva sentire nei loro confronti una “traditrice”. Soprattutto quando alcune di loro mi identificavano come “migliore amica”. Per me non era così. All’epoca però non riuscivo a spiegarmi fino in fondo il perché di questa “distanza”, incolmabile. Pensavo di peccare di eccessiva razionalità e algidità emotiva, ma con il trasferimento (quindi con l'allontanamento fisico) e mettendo a fuoco meglio quelle persone, mi sono resa conto che in realtà molti aspetti del loro carattere e del modo di fare stridevano con alcuni dei miei valori e che ciò che ci "divideva" aveva un peso maggiore rispetto a ciò che ci "univa". Mi sono sorpresa di come all’epoca sia riuscita a tollerare certe attitudini e comportamenti (forse per una questione di sopravvivenza nel gruppo, inconsciamente tendiamo ad "esaltare" gli aspetti positivi e minimizzare quelli negativi). Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
conrad65 Posted July 7, 2010 Share Posted July 7, 2010 Quanto alla consapevolezza, c'è uno stadio in cui uno diventa consapevole di quel che, di fatto, accade. Ci può essere anche uno stadio in cui uno, magari a tratti, non è solo spettatore, consapevole o meno, di questo, ma è in grado di operare cambiamenti, dare inizio a un nuovo modo di porsi, altrimenti saremmo identici a noi stessi in ogni fase della nostra vita, e forse non è proprio così. quello che differenzia il mio punto di vista dal tuo è che secondo me i rapporti affettivi non sono sotto l'imperio dell'io pertanto non c'è alcuna possibilità di cambiare le cose su base "volontaria" (ecco, la traccia di superomismo nel tuo pensiero di cui ti dicevo è secondo me questa idea di poter attuare cambiamenti "volontari" sulle cose del cuore) possiamo solo cercare (a fatica, spesso) di essere consapevoli e quindi di integrarli come contenuti coscienti ma questo, e sono d'accordo con te, è un esercizio quasi sempre "ex-post" tranne che nelle poche persone per cui vale un costante e indisturbato "conosci te stesso" o "ricorda te stesso", ma questi sono degli illuminati noi comuni mortali domandiamoci francamente: siamo davvero consapevoli dei motivi per cui in passato si sono interrotte molte amicizie? e crediamo davvero che ci sia stato un momento in cui questo processo sarebbe stato governabile con esiti diversi? non ti seguo invece sulla tua frase finale in realtà non siamo mai identici a noi stessi proprio perché alcuni contenuti essenziali di noi mutano in totale autonomia e spesso inconsapevolezza rispetto all'io e ne esperiamo spesso gli stupefacenti risultati come se avvenissero a qualcun altro... a tal punto che molti li proiettano esternamente Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Isher Posted July 7, 2010 Author Share Posted July 7, 2010 quello che differenzia il mio punto di vista dal tuo è che secondo me i rapporti affettivi non sono sotto l'imperio dell'io pertanto non c'è alcuna possibilità di cambiare le cose su base "volontaria" (ecco, la traccia di superomismo nel tuo pensiero di cui ti dicevo è secondo me questa idea di poter attuare cambiamenti "volontari" sulle cose del cuore) Io credo che una persona che abbia una certa conoscenza di sé, della propria psiche, che sia abituata a riflettere su esperienze proprie o anche di persone molto vicine, possa tentare, anzi sia motivata a tentare, di operare piccoli, probabilmente minuscoli e puramente tentativi, mutamenti di atteggiamento psicologico. Il meccanismo di cui parlo è quello che hanno conosciuto tutti quelli che, ad esempio, hanno fatto un'analisi, ed è molto difficile spiegarlo a parole. Non si tratta di "Volontà": è un moto molto più complesso, più globale, che investe varie zone di sé, e mette in moto varie funzioni psichiche. non ti seguo invece sulla tua frase finale in realtà non siamo mai identici a noi stessi proprio perché alcuni contenuti essenziali di noi mutano in totale autonomia e spesso inconsapevolezza rispetto all'io e ne esperiamo spesso gli stupefacenti risultati come se avvenissero a qualcun altro... a tal punto che molti li proiettano esternamente :) Va bene, ma parliamo di noi. Tu ti limiti a proiettare esternamente? I cambiamenti li esperisci come se avvenissero a qualcun altro? Io no. I meccanismi di inconsceità esistono eccome, ma noi abbiamo sempre contemporaneamente la possibilità di elaborarli, sia pure solo parzialmente, e in un processo tendenzialmente senza fine. volevo riportare la mia esperienza personale sul fattore distanza come causa della svalutazione . Mi sembra che nel tuo caso ci sia stato una doppia funzione della «distanza». Quella psicologica, emotiva, affettiva, ha funzionato come campanello d'allarme, rivelatore di una tua alterità come persona e sul piano dei valori. In quel caso la distanza era la giusta tua reazione a un rapporto o a dei rapporti che erano parzialmente confusi e non ti permettevano di vedere fin dove tu vi aderivi veramente, e soprattutto perché non vi aderivi completamente. Il fatto che tu non sapessi e potessi risponderti generava complessi di colpa, contraccolpi accusatori. Quando è venuta, la risposta a questo perché ha viceversa coinciso con una maggiore conoscenza di te, di territori di te, che prima erano leggermente sommersi. La distanza fisica ti ha permesso di oggettivare quello che era un monte di esperienze con qualche elemento di confusività, e probabilmente di far funzionare non in modo «algido» una tua natura razionale che poi si è espressa in modo «conoscitivo». Non mi è affatto chiaro ove tu intraveda fissità. «Quel tanto di fissità», avevo detto. Non c'è alcunché di fisso in un ideale eroico dell'Io? Direi che deve esserci per forza. Tutto il costruire, il proiettarsi, il divenire, la progettazione, l'essere aperti a tutte le esperienze, di cui l'Io si carica, presuppongono quanto meno quel «fare affidamento sulle fondamenta» di cui tu stesso parli. E anche una bella fatica, perseveranza, mirare sempre a una meta, non deflettere né smosciarsi. Una metafora calzante è che l'ideale eroico dell'Io è uno stato di perenne erezione. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Silverselfer Posted July 9, 2010 Share Posted July 9, 2010 << Tutto il costruire, il proiettarsi, il divenire, la progettazione, l'essere aperti a tutte le esperienze, di cui l'Io si carica (..) E anche una bella fatica, perseveranza, mirare sempre a una meta, non deflettere né smosciarsi. Una metafora calzante è che l'ideale eroico dell'Io è uno stato di perenne erezione >> Oh, Isher, finalmente hai scritto qualcosa che ho capito persino io! Personalmente la penso esattamente come l'amica di Ischer. Divento amico di una persona che mi fa star bene, con cui non devo chiedermi "perché sto qui?", con cui anche i silenzi in un certo senso parlano. Si allieva il peso stremante della noia. Quando e perché finisce un'amicizia? Direi che le cose iniziano a andar male quando si cominciano ad ascoltare certi discorsi come quelli che ho letto qui. L'amicizia è una farfalla che ha bisogno di lievità per svolazzare di fiore in fiore, o se preferite, superficialità. Con questo non voglio dire che non bisogna voler bene ad un amico, ma comiciare a fargli paranoie del tipo: "non ti fai più sentire", "oramai esci solo con gli altri", "un rapporto amicale è basato sulla reciprocità". Uh, ipotizzare una situazione del genere già mi fa mancare l'aria. Amici veri, quelli che contano li porto sempre con me (anche se non li chiamo mai), poi basta un pomeriggio per ritrovarli e quindi riperderli, c'est la vie! L'unico modo di trattenerli sarebbe inchiodarli con uno spillo su una bacheca per la propria collezione fi farfalle "umane" Siamo solo individui che possono condividere la propria solitudine in amicizia, perché voler razionalizzare sempre tutto? Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Diony Posted July 13, 2010 Share Posted July 13, 2010 Secondo me le forze avverse all'amicizia é l'amore. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
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