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Paura d'amare, dopo che la violenza è stata parte della mia vita.


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limerik65 PD

Non sto postando in 'spunti e riflessioni', perché sono state le mie relazioni sentimentali ad essere state più o meno (nel tempo e nel modo) farlocche, praticamente sempre.

 

Già l'innamoramento mi distrugge nel corpo e nello spirito: una città posta d'assedio a cui buttano giù le mura e chi entra potrebbe anche fare ciò che vuole, perché tutte le strade diventano accessibili, le case sono senza porte e finestre, le cassepanche senza coperchi e gli armadi senza ante.

 

L'innamoramento lascia intravedere le mie devastazioni interiori, ancora oggetto di un lungo e laborioso lavoro di riassestamento; chi si avventura in meandri come questi, rischia di essere investito dalla caduta di un ponteggio, o dal crollo di una volta.

 

Oggi sono un bel castello, ma pieno di trappole per chi ci si avventura.

 

Si parla spesso delle vittime di pedofilia, dei pedofili, dei bambini che hanno subito, per cui proviamo un'infinita tenerezza, ma poi questi bambini diventano adulti con un inferno dentro.

 

Anni fa scrissi una lettera a un amico; non gliela diedi perché mi resi conto che aveva smesso di volermi bene, ma spiega come oggi non saprei più fare di cosa è fatto l'inferno di una vittima di pedofilia.

 

 

“E’ per non tirare nessun altro nel mio inferno che sono stato anche capace di grandi bugie. Ma le grandi bugie in un rapporto basato sulla fiducia non possono che guastarlo. I bivi davanti a cui mi sono trovato non sono mai stati facili, perché, come poi è successo, le strade che mi si prospettavano portavano sull'orlo del precipizio; voglio dire che anche l’altra strada, quella della verità, troppo spesso ha fatto di me un viandante solitario.

Quello che mi è capitato non è solo una storia: sono io, è parte di me, come lo sono i miei capelli neri, i miei occhi scuri o il mio modo di tenerli chiusi quando ascolto la mia musica preferita.

La mia verità non mi ha mai reso libero, le bugie, meno che mai. Sono quello che sono, un po’ complicato mio malgrado, attento a tenere le distanze di sicurezza, finché non mi faccio fregare dalla commozione.

 

Nell’accingermi a dare dignità di cronaca alle emozioni, al dolore, alla disperazione, tutto diventa più difficile perché i sentimenti, di qualunque genere essi siano, quando sono feriti a morte, decidono quasi sempre di andare a rifugiarsi chissà dove, giocando a nascondino in posti impossibili.

In casa mia, dovevo percorrere fili sospesi nel vuoto, dove ogni passo falso diventava motivo per una dura punizione corporale e i passi giusti un motivo per essere colpito ancora più duramente, perché irritavano, perché ogni cosa doveva rientrare comunque nel suo onnipotente controllo. Non avevo opzioni. Non c’era nessuno a tifare per me; e perché poi? Ai bambini schiacciati fisicamente e psicologicamente batte loro forte il cuore al solo sentirsi chiamare per nome; seduti, capita loro spesso di dondolarsi su e giù con le spalle, di aggrapparsi alla propria maglietta con le mani come se temessero di scivolare giù per un pozzo. Prima delle violenze ricordo un altro bambino, luminoso, speciale. Poi è passata su di me la sua ombra. E di quel bambino spaventato a morte lei, mia madre, ha deciso che non se ne faceva più nulla, ché non ci faceva bella figura.

Si appartava spesso con l’altro figlio, con lui rideva forte alle sue battute, scherzava e qualche volta si confidava. Mia madre riesco a ricordarla solo di spalle, la testa che si volta appena a guardarmi, senza un'espressione particolare.

 

In casa anche spostare l’aria con un dito poteva essere pericoloso. Ero sufficientemente terrorizzato per non osare reagire o persino respirare se lui non me lo consentiva.

Quella di casa mia era una partita a tre impossibile da giocare, dove tutto era folle: da parte mia c’era lo stupore di un bambino nel constatare l’abisso di crudeltà con cui ogni giorno lui escogitava un modo diverso per torturarmi, la sua risata agghiacciante quando lo imploravo inutilmente di fermarsi; lui che già uomo abusava di me sputandomi in faccia, insultandomi e ridendo forte. Le uniche carezze, avvelenate, che ricevevo in famiglia.

Ecco come si può desiderare di morire a otto anni.

 

Piano piano sprofondo. È un po’ come finire nel seminterrato quando nell’ascensore credevi di aver premuto il pulsante per il terrazzo, dove sai che c’è un bel sole ad aspettarti per baciarti la fronte.

In casa ero come invisibile: ho imparato pian piano ad esserlo davvero; ora è come un vestito che non riesco a togliermi. Per anni sotto questo vestito ci ho nascosto di tutto: le mie necessità, i miei perché, i miei no. Trovavo che il rischio di rincontrare altri abusatori, nel senso più lato del termine, era ancora troppo grande, e ancor più grande quello di finire nell’arena degli indifferenti.

Per anni mi è bastato il mio mondo: la musica, i libri; non intendevo con essi stabilire un record quanto piuttosto ammorbidire tutti i fallimenti che, come spore impazzite, sarebbero esplosi uno dopo l’altro dopo il grande disastro famigliare. Intanto l’ordigno a orologeria continua a ticchettare.

 

Sappiamo benissimo che fra noi le cose non vanno più così bene. Sappiamo anche che quando mi presenti agli altri come il tuo migliore amico, lo fai con poca convinzione. Il punto è che ci si rammarica sempre per quel che non si è avuto la presenza di spirito di domandare o di chiarire. Una volta parlavamo molto di noi finché, ad un bel momento, abbiamo smesso di farlo perché un po’ per volta la nostra amicizia stava perdendo sostanza. Forse capirsi non poteva più servirci e fraintenderci fu giusta condizione, eppure c’è stato un che di stupido in questo nostro tacere ad oltranza: alla lunga non ci si può che abituare, come a un vino pesante che inebria e stordisce, e ci si convince che le verità taciute, o solo insinuate con prudenza e sottovoce, siano le sole possibili. Così ho commesso l’errore di non alzare mai la voce persuaso che, presto o tardi, l’avresti fatto tu: per me eri tu l’essere umano della grande specie; io ero solo uno strano, banale ragazzino incasinato.

Quando venivi a trovarmi, ti fermavi volentieri a parlare con i miei; credo che ti piacessero molto. Eppure prendi mia madre; una volta si accorse di qualcosa: aprì la porta della stanza e la richiuse. Non so se ha visto, se non ha capito, o se è riuscita a rendersi cieca o se ha semplicemente cancellato un ricordo per lei insopportabile, ma quel giorno realizzai di aver appena fatto il mio ingresso nel peggiore degli incubi; ne sono ancora ostaggio, tutti i giorni. Certi eventi restano scritti sul corpo esattamente come nelle pagine di un libro, e quelle pagine mostrarono subito le loro macchie, gli strappi e soprattutto le parole mai dette. A otto anni, forse nove, ero terrorizzato e in casa tutti si comportavano come se nulla stesse accadendo. La brutalità della violenza, che con il tempo aumentava, andò pacificamente ad accostarsi alle immagini abituali della vita domestica, fino a confondersi. Solo la musica sapeva restituirmi il senso tragico di quanto a casa sembrava essere ordinario. Già sai - a tue spese - che l’ascoltavo sino allo sfinimento, finché mi sembrava che la vita se ne andasse dal corpo. Per chi come me non poteva rischiare con le parole e con le persone a cui dirle, non c’era altro. Poi un po’ alla volta ho iniziato a leggere molto; ogni volta che aprivo un libro mi aspettavo rivelazioni sorprendenti, ma quando lo chiudevo mi sentivo più scoraggiato. So bene che non è nelle pagine che vi si può trovare la realtà nella sua interezza, ma anche le cose che sappiamo degli altri sono quasi sempre di seconda mano. Anche se avessi preso la decisione di raccontartelo, avrei dovuto prima trovare le parole giuste per designare e spiegare i fatti sconcertanti che mi erano accaduti; quante speranze potevo nutrire, allora, di riuscire ad elaborare un resoconto abbastanza convincente perché qualcuno mi prendesse sul serio e magari mi aiutasse?

Ogni giorno a me toccava lottare con la paura. Poi, in qualche modo, finii col collaborare; convinto di rendere più sopportabile il dolore immediato, senza ancora saperlo, ordivo la trama futura e ineludibile per cui avrei finito coll’addossarmi parte di quella colpa fino a fare di me stesso un complice forse più spregevole del carnefice. Intanto continuavano i gesti ordinari che sembravano negare ogni cosa come se tutto fosse solo immaginato. Lo spazio tra me e i miei era diventato assoluto; era come dibattersi nel cuore di un cristallo, tanto grandi si erano fatte la loro cecità e la mia solitudine. Oggi quello spazio è diventato incolmabile. Quei contatti avvelenati, anno dopo anno, mi insegnarono che avevo un corpo con una sua volontà e una sua memoria e a cui, se fosse stato possibile, non avrei voluto appartenere. Ma oggi so per certo che il corpo e l’anima sono la stessa cosa; non esiste niente che fatto al corpo non venga fatto anche all’anima; non so bene a cosa sono sopravvissuto ma l’anima, o quella cosa che oggi vorrebbe assomigliarle, è stata ferita e dev’essersene andata via: se così non fosse stato, avrei ancora un posto dentro di me dove rifugiarmi.

 

So che ci saranno sicuramente altri giardini da qualche parte, ma io da allora ne sono rimasto fuori. Da allora gli occhi mi si sono chiusi, come quando una vista improvvisa penetra all’interno e uno la va a trattenere al buio dentro di sé per capirla bene. Ne sono riemerse desolazioni impronunziabili, come certi mutismi che ci prendono da bambini di fronte a una cattiveria, a un male irreparabile. Commesso un torto non c’è più modo di risanarlo, non c’è rimedio: bisognerebbe non commetterlo mai, non c’è bravura che possa contrastare certi colpi. Non c’è bravura possibile per un bambino di fronte a una porta richiusa in silenzio da una madre, per non vedere cosa stanno facendo a suo figlio.

Gli sguardi che più di ogni altro ho cercato, hanno incontrato il mio solo distrattamente; molti di questi riuscivano a contenere un silenzio sconcertante. Erano sguardi elusivi per un corpo buio; un corpo, il mio, che ho smesso presto di amare e curare perché reso irrimediabilmente incurabile e devastato. Naturalmente guardavo le cose che mi accadevano con gli occhi di un bambino: sentivo di essere stato attaccato da uno sguardo di bestia cattiva. Non erano occhi liquidi i suoi, non rimandavano bagliori. Dalle lenti convesse dei globi oculari, chiusi dal laccio delle ciglia spalancate, non convergeva nessun fuoco all’interno, né dietro il loro cristallo si indovinava il luccichio di un’anima: l’iride sembrava fatta di pezzi di carta-vetro malamente giustapposti e le pupille, due finestre cieche. All’età di otto anni conclusi che tutto il male del mondo lo si poteva ritrovare in quello sguardo buio, che feriva a morte più di un pene che ti entra dentro come una spada e che riesce, non si sa come, a spaccarti immediatamente il cuore in due.

Quel buio immenso io me lo porto ancora dentro: in tanti lo vedono, lo temono e subito cercano con lo sguardo altrove.

 

Ho sempre aspettato. Era diventato un addestramento quello di stringere i denti, superare quelle notti e tornare finalmente libero per qualche ora ad affrontare il giorno. Capii subito che non sarebbe mai arrivato l’abbraccio di mia madre a sciogliermi la voce e a tenermi in equilibrio: così, tutte le mattine mi rimettevo in piedi disancorato e con buffe oscillazioni nell’impresa di dover percorrere i marciapiedi della via di casa verso la scuola, dove mi aspettava lo scherno a volte tenero a volte crudele dei compagni di classe. A lezione non osavo far domande; se qualcuno mi rivolgeva la parola anche solo per chiedermi l’ora, rispondevo insicuro e balbettante come se mi trovassi davanti a una commissione d’esame. Il mio nome esclamato mi scuoteva; era solo una sigla eppure risuonava come un ordine perentorio. Oggi mia madre mi ama moltissimo e - chissà - forse per volersi bene non è poi così necessario spiegar sempre ogni cosa. Eppure avrei voluto dirle tante cose, destarle un certo tipo di attenzione per il bambino che sono stato; un bambino di cui parlare non per qualcosa di buono o di sbagliato commessa a causa della sua pochezza, ma per quello che era e per quello che allora gli stava succedendo. Sì, la mia sorte di bambino era “diversa”; un aggettivo assegnatomi a vita, una definizione appellabile meno di una sentenza. Queste parole, dette oggi, suonerebbero goffe, perché sarebbero parole dell’assenza, eppure il loro silenzio mi dà ancora la vertigine di un precipizio.

 

E dire che avevo sopportato ogni cosa convinto che una volta libero avrei avuto il mio risarcimento. Quando sei arrivato tu, mi ripetevo che mi spettavi di diritto, che ti meritavo. In un tuo abbraccio avrei voluto scoprire come ci si sentiva ad essere accolti e amati, un promemoria per i giorni a venire perché, fin dal primo momento, capii che la mia vita si era spezzata esattamente in quel punto e che mi aspettavano giorni ancora più difficili, i giorni in cui in tanti, trovandosi a familiarizzare con le mie zone d’ombra, si sarebbero dileguati.

 

 

Il mio affetto per te era illimitato, consolante; la tua natura scontrosa non riusciva a fermarlo: per me contava solo il desiderio domenicale di inserirmi nel corso della tua vita. Sebbene volessi essere bello per te, la perdita della mia verginità di bambino e poi di adolescente me lo impediva ogni giorno di più. Fin dall'inizio, ho sempre intravisto la china da cui tutto sarebbe precipitato: si trattava di pura conseguenzialità, precisa come la precisione con cui suonavi il campanello di casa ai pomeriggi e alle domeniche mattina. Era tutto così nitido che finii per augurarmi la morte anche a causa tua. Temevo il tuo giudizio, non avrei resistito alla devastazione della vergogna: quanto tempo sarebbe passato prima di apparirti opaco, colpevole? L'innocenza delle vittime è sempre generica quando non la si guarda da vicino e le attenuanti che prima o poi il carnefice riesce a farsi attribuire riescono persino macchiarla. È la fortuna degli orchi: alla fine sanno generare mostri peggiori di loro.

Guardavo a te come a un porto sicuro, ma non potevo essere salvato; oggi io sono come una brocca incrinata: non c’è niente che, versato, io riesca a trattenere. Non mi hai salvato, né io ho salvato te. La sofferenza rende egoisti, assorbe interamente; solo quando passa, il suo ricordo ci insegna qualcosa della compassione, ma questa può provarla anche una Madre Teresa o un bravo associazionista volontario: troppo generica e troppo universale, e a me non interessa. Quelli come me sono quasi sempre destinati a diventare così folli da aspettarsi amori perfetti, incondizionati. Forse avrebbe potuto provarla Dio, in fondo non ero che un bambino in pericolo… e lui un padre distratto; quando oggi mi chiedono se credo in lui, io a mia volta mi chiedo se lui ha creduto in me. Nella casa che ho lasciato nessuno ha mai chiesto a quel bambino cosa ne era della sua vita; ero lì con loro, ma era come non esserci. Anche quando mi guardavano, non mi vedevano.

 

Una volta partito per l'università, come se una diga fosse venuta giù ho cominciato a raccontarmi, ma ho dovuto subito imparare a omettere i dettagli perché quando più tardi mi è capitato di riferirli a chi credevo capace di saggezza, era tutto un mitigare, un tenersi cautamente alla larga come fossero lebbra. Eppure sono proprio quei dettagli così indicibili ad aver lasciato il segno; sono i cinque sensi ad aver fatto incetta del materiale peggiore per i miei ricordi di cui dovrò portare da solo l’intero peso. Come un forzato condannato ingiustamente il quale, una volta libero, non aspetta altro che di poter gridare al mondo l’ingiustizia subita io, nel raccontare la mia esperienza, mi aspettavo che il mondo intero mi stringesse a sé e mi sollevasse per sempre dal dolore. E invece, mi son sentito dire di tutto, che magari ero stato io a sedurre, io il vero carnefice, o che se non avevo ancora superato la cosa era perché non appartenevo alla razza dei “forti”; alla fine, in un modo o nell’altro, ero stato io a cercarmela.

Mai nessuno mi ha detto che ero stato ingannato, defraudato dell’avventura più importante per un ragazzo, per un uomo: la scoperta di se stessi. Ogni schiaffo, ogni insulto ha modellato il mio avvenire e niente ha rimandato indietro il mio urlo di spavento; è così che ho dovuto misurare tutta l’atrocità di Dio.

 

Mi rendo conto che finora non ho espresso altro che i pensieri di un bambino e che, nonostante i miei sforzi, resterò il solo a conoscerli, il solo a portarli con me. Ma non mi è mai stato consentito di comportarmi come un bambino, sarà per questo che non sono mai stato veramente capace di semplicità nel parlare, nello scrivere o nell’amare. Anche adesso, le cose più semplici da dirti continuano a restarmi sconosciute e so di perdermi il meglio; tutto il resto è solo una toppa sulla mia fragilità. Ma è tutto quello che ho.

Forse tu sei solo capitato sul set giusto fra un ciak e l’altro della mia vicenda, un set dove tutti rivolgevano lo sguardo altrove. Del resto anche noi due siamo sempre stati lontani anni luce; se persino certi silenzi da niente col tempo finiscono per diventare grandi come macigni, figurati i nostri che da sempre sono stati due silenzi perfettamente accordati. Se io avessi pronunciato delle parole, questo genere di parole, tu avresti potuto andar via prima. E se fosse accaduto, mi sarei torturato di più.

Solo oggi capisco che il silenzio è sempre un errore, ma quando questo si installa per forza in una casa è difficile farlo uscire, ed ancora più arduo è render conto di fatti di cui è più facile essere accusati che esibire la prova d’innocenza.

 

La porta richiusa da mia madre mi ha messo in trappola, lasciandomi cucito sotto la pelle un ordigno a orologeria. Complice la musica assordante e l'ubriachezza te lo dico a voce bassa, spezzata, la mia fronte appoggiata alla tua, le mie mani che artigliano la tua maglietta. Ma non sei tu a prendere un respiro e a dire che ora è inutile chiedermi chi o cosa avrei potuto essere se avessero lasciato in pace quel bambino. Non sei tu a parlarmi della necessità di adattarmi a una realtà che è sempre imprevedibile, paradossale, in continuo movimento: a parlarmi di alghe cui tocca piegarsi sotto la spinta del mare…

Lo stesso mare che qualche volta, nei giorni di sole, ho sognato di affrontare insieme a te e che, mentre sto scrivendo una lettera che non ti consegnerò né stasera né mai, ora guardo da lontano e con sospetto.”

Ciao Limerik,

comprendo molto bene la tua situazione e i momenti bui che stai attraversando. Ci sono odori che non si possono dimenticare, suoni, voci, gesti. Quelle mani te le senti sempre addosso e ci sono notti che ti svegli ricoperto di sudore. Dio che si è voltato dall'altra parte dimenticando che qualcuno lo stava invocando.

E' un bambino troppo taciturno, troppo timido, ha paura della sua ombra, tiene gli occhi bassi per strada e quando parla balbetta.

Non riuscivo mai a guardare in faccia le persone, odiavo le cantine, i posti piccoli e bui.

Ricordo che piangevo, piangevo e urlavo e poi un giorno qualcuno deve aver chiamato la polizia, forse troppo stufo di sentire un bambino piangere continuamente o forse non ha più voluto far finta di niente. In Canada le cose funzionano molto più velocemente che in Italia, ricordo che vennero due donne, mi presero e mi portarono via.

Sei mesi dopo ero con un'altra famiglia, quella che è tuttora la mia famiglia.

Sono state persone meravigliose anche dopo il divorzio, attente a me, hanno cercato di farmi superare quel trauma ma questi traumi non si superano mai, ti rimangono appiccicati sulla pelle e condizionano tutta la tua vita.

Dobbiamo annaspare per cercare dell'aria pulita, noi siamo dei sopravvissuti, il senso di colpa ci tormenta. Ci sentiamo noi i carnefici di questo maledetto circolo vizioso che non ci da pace. Vorremmo dimenticare ma anche questo ci è negato.

E allora impariamo a convivere col dolore e quando ci sono giorni in cui diventa più forte dobbiamo trovare un modo per stordirci.

Ricordo un periodo in cui non volevo dormire perchè quando chiudevo gli occhi tutto si ripeteva.

Ho sempre odiato l'odore dell'umido e della muffa e quei fiati misti a caffè e tabacco mi fanno venire ancora adesso la nausea.

Odio gli uomini grassi e quelli con le mani troppo grandi che troppe volte si sono posate su di me.

Continua a parlarne fino a quando non hai più voce, lascia che il dolore esca ed esploda altrimenti arriverai al punto dov'ero arrivato io, il suicidio, ma neanche quello mi è riuscito.

Spero che tu sia seguito da dei buoni terapisti, non fanno miracoli ma possono aiutarti.

Ti sono vicino.

Che storie profondamente tristi, di sofferenza e di dolore.

La violenza non è mai giustificabile, ma su un bambino assume una valenza esponenziale, una persona che deve ancora formarsi fisicamente ma soprattutto caratterialmente, psicologicamente.....è come spezzare le ali a un aquilotto che impara per la prima volta a sbattere le ali, fiducioso di riuscire a volare prima o poi come gli altri aquilotti.

 

Onestamente mi piacerebbe consigliarti di fargliela recapitare comunque questa lettera al tuo amico, non è mai troppo tardi, anche se magari il vostro rapporto si è raffreddato col tempo. Potrebbe essere anche l'occasione per un riavvicinamento, o comunque per un momento di confronto.

Gli "schiaffi" subiti nel corso della vita generano sempre nuova diffidenza, si tende sempre a vedere tutto con un occhio sempre più pessimistico e credo che anche il fatto di aver voluto elaborare questa bellissima e sofferta lettera, ma poi di non aver avuto il coraggio o la convinzione di consegnargliela dimostri questa tua perplessità e difficoltà nei rapporti con le altre persone. Spero davvero, via mail, via posta tradizionale, tu riesca a trovare lo stimolo giusto per fargliela avere.

 

Quanto a tua madre, mi spiace ma per come la vedo io è tanto colpevole o forse anche più di chi è stato il carnefice materiale, l'orco. Non si può essere madri e permettere cose del genere perpetrate su un proprio figlio, nel silenzio e nella indifferenza "di comodo", non esiste.

Ora non so se colui che ti ha arrecato tanta sofferenza sia ancora su questo pianeta terreno, ma nel caso, avesse pure 150 anni, meriterebbe di essere "segnalato" alle autorità competenti.

 

Il mio augurio, anche se mi rendo conto sono solo parole scritte su un forum, è che tu riesca a iniziare una nuova fase della tua vita, che tu riesca a trovare qualcuno con cui riuscire ad aprirti, a raccontarti come un libro aperto (come hai fatto nella mail), con cui non ti vergogni (perchè non ti devi vergognare di qualcosa che hai solo potuto subire inerme) del tuo passato difficile. Qualcuno che sia disposto ad ascoltarti e a offrirti un sostegno.

Per quanto possa aiutare qui nel forum ti saremo vicino, se avrai voglia di raccontare, sfogarti.

Mi auguro la vita cominci a sorriderti.

Un abbraccio a te e anche a BlackRose.

limerik65 PD

Intanto vi ringrazio tutti per il tempo dedicato a leggere un post inconsuetamente lungo e impegnativo, se non altro perché è abbastanza tosto come argomento.

Oggi sono in terapia, una brava psicologa che fa quello che può e, caro BlackRose, mi piacerebbe molto confrontarmi con te, sapere quello che sei oggi, capire fin dove possiamo riuscire a vincere per non vivere sempre da sopravvissuti.

Il mio amico era assurdamente bello e ci vedevamo tutti i giorni; scriveva poesie, mi scriveva molte lettere e pensava, che il genere umano, che lui chiamava 'la gente', meritasse la fogna. Io me ne ero innamorato e non mi era mai successo prima con nessuno (avevo 16 anni, la lettera la scrissi pochi anni dopo); se era stronzo? Certo e lo sapevo anche, ma con me era protettivo. La lettera stavo per consegnarla a mano, l'avevo in una tasca, ma quel giorno usò un notevole repertorio per ferirmi in tutti i modi e così rimase in tasca.

La scrissi da ragazzo ma oggi sono un uomo; ovviamente il mio 'sentire' si è trasformato, in meglio, in peggio, devo dire che dipende anche dai periodi, dalle 'ondulate' frequenze con cui vado a sintonizzarmi col prossimo.

Aggiungo che sono riuscito a fermare la persona in questione picchiandolo, molto, ma ho dovuto aspettare degli anni per poterlo fisicamente fare. Quindi ho dovuto fare da solo, come, tutto sommato, un po' per diffidenza un po' perché molti ad un certo punto si sono allontanati quando capivano quanto ero 'incasinato', ho dovuto continuare a cavarmela da me.

Devo dire che le mie storie sono state sempre brevissime; capite che per uno come me fidarsi è dura, ma qualche volta che funzionava davvero, non appena, scavando scavando, capivano qualcosa del mio passato si spaventavano.

Perché? Io un'idea me la sono fatta, magari solo per alcuni aspetti. Il fatto è che ho un buon carattere, che è uno dei miei punti di forza. Ma quando, in un modo o nell'altro, veniva fuori la mia storia, mi si creava il vuoto intorno; per certi versi, comprensibilmente, devo aggiungere. Frasi come: 'è una cosa con cui non posso confrontarmi, mi fa paura, sono già incasinato di mio' si sono sprecate. C'era anche chi era convinto che fossi un inconsapevole pedofilo, destino obbligato di tutte le vittime di pedofilia. Non c'era verso di convincerlo del contrario. Per anni ho percepito me stesso come una specie di vampiro, marchiato da questa storia, a causa delle reazioni di tanti. Finché decisi di non raccontare proprio più nulla a nessuno; per un po' sembrava funzionare, ma era una chimera. Era come negare me stesso. A casa l'argomento non è mai stato affrontato, certe cose andavano fatte prima; complice la distanza da casa per via degli studi, li vedevo poco. Oggi penso che certe cose vanno confidate non per semplice sfogo, ma solo se serve a risolverle. L'uomo medio queste cose rifiuta anche solo di sentirle, ve l'assicuro per esperienza, altrimenti non perderebbe tempo a cercare di capire cosa non andava in un bambino di otto anni anziché nel carnefice, una figura compiuta in se stessa per la sua abiezione e cattiveria su cui c'è poco da discutere e capire; ovviamente le cose sono più complesse. Intanto la pesante eredità rimastami è che sono una schiappa a tenere in piedi una relazione; credo che alla fine il post l'ho messo per questo.

Non riesco a dire 'the next' quando un incontro non funziona, perché la mia autostima messa su con molto nastro adesivo dopo fatica a rimettersi in piedi. Capace in tante cose della vita, manco di intelligenza nel gestire i sentimenti. E se anche la vita è fatta di tante cose, nessuno può mettere in dubbio cos'è che conta di più. Ergo, non sono intelligente.

Non riesco a dire 'the next' quando un incontro non funziona, perché la mia autostima messa su con molto nastro adesivo dopo fatica a rimettersi in piedi. Capace in tante cose della vita, manco di intelligenza nel gestire i sentimenti. E se anche la vita è fatta di tante cose, nessuno può mettere in dubbio cos'è che conta di più. Ergo, non sono intelligente.

 

Non è assolutamente vero, questo è quello che pensi adesso anche per via di quello che hai subito. La tua vita merita il meglio, ricordatelo. Il tuo orco ti ha già fatto soffrire in passato, non permettergli di rovinare anche la tua vita di oggi, non meriti tutto qsto dolore.(ti mando un mp.)

Christopher

Mi dispiace molto per la tua storia. L'unico consiglio che voglio darti è cerca di vivere a pieno la tua vita, non lasciare che il passato influenzi il tuo futuro.

Hai incontrato veramente delle pessime persone, non chiuderti mai in te stesso!

Un abbraccio.

Intanto vi ringrazio tutti per il tempo dedicato a leggere un post inconsuetamente lungo e impegnativo, se non altro perché è abbastanza tosto come argomento.

Oggi sono in terapia, una brava psicologa che fa quello che può e, caro BlackRose, mi piacerebbe molto confrontarmi con te, sapere quello che sei oggi, capire fin dove possiamo riuscire a vincere per non vivere sempre da sopravvissuti.

 

Ciao Limerik, sono più che disponibile a parlare con te, ma conviene farlo in pm mi sembra la sede più adatta.

 

 

 

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