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I racconti della buonanotte


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Il video che mi ispirò a scrivere questo racconto

 

 

e dove finisce la musica inizia la parola:

 

Oggi è l’ultimo giorno per poter non pensare ai problemi, tuttavia domani li sposteremo più avanti in un ciclo infinito senza mai darci un limite.

Quanti pensieri vi saranno in una mente umana? Non lo so, in questa società il tempo non ci consente di quantificarli. Vivo in un mondo in cui il potere è stato preso dagli orologi, loro sono i nostri dittatori, loro ci obbligano.

Accade un giorno lontano, quando l’uomo era ancora padrone delle sue macchine, esse lo rispettavano poiché egli era il suo creatore, ma ad un certo punto degenerarono, impazzirono, forse per un virus infilato nel sistema. Le lancette iniziarono a girare più rapidamente e a scandire il tempo in modo frenetico. L’uomo non poteva fare a meno delle sue abitudini, dei suoi orari e eliminare i macchinari da cui dipendeva sarebbe stato disastroso e così il padrone diventò servo e il servo padrone.

Il sonno non mi appartiene più, non mi appartiene la religione, non mi appartiene la filosofia né il pensiero: solo il silenzio e il lavoro. Chi non riesce a tenere il ritmo inumano di questo realtà mostruosa si trasforma in Anima Urlante. Capiterà a tutti, quando le forze ci abbandoneranno allora ci fermeremo e in un unico grido esaleremo tutta la nostra angoscia e la nostra ansia e finalmente diventeremo spirito e saremo giudicati, ma sappiamo già che non andremo tra i cieli: ci siamo sostituiti a Dio e così l’abbiamo ucciso, e allo stesso modo siamo stati uccisi anche noi.

Incrociai il volto di una ragazza che camminava nel verso opposto, i nostri volti dovrebbero non avere espressione, se essi ne avessero una allora non potrebbe reggere la velocità a cui la massa si sposta. I movimenti sono rapidi, automatici, quasi istintivi, d’altronde sono pochi e semplici e non abbiamo nient’altro da fare che quelli.

Non c’è un fine nella nostra società, gli orologi hanno come programma di farci muovere sempre più celermente, spingerci a superare i nostri limiti che prima sembravano insuperabili, vogliono portarci ad un punto in cui non ci sarà né spazio né materia ma solo il ticchettare dell’orologio.

L’umanità si è abituata a vivere sottoterra, abbiamo creato trasposti e vie che ci consentono di spostarci più velocemente. Le metro passano ogni dieci secondi, a velocità elevate collegano ogni punto della terra. In realtà non conosciamo il sole, le meraviglie della natura, forse ci distrarrebbero dal nostro compito, dal progetto di superare i nostri difetti umani, perciò la nostra pelle è bianca, ma non di un biancore puro, ma livido, quasi malato. I nostri occhi sono sbiaditi, un azzurro tendente al bianco, i capelli sono sporchi e noi stessi puzziamo. Non abbiamo alcun interesse, non ci è stato insegnato.

La metro era già passata e ne dovevo attendere un’altra. Camminai in modo esattamente ritmato con le altre due persone che avevo accanto, come me avanzavano a passo deciso.

Qualche volta quando ero più piccolo, mi sono chiesto se la parola sorriso sia mai esistita, rammento alcuni vocaboli, ma non saprei spiegarne il significato, di solito, anzi, non comunichiamo mai fra noi uomini, non ne abbiamo bisogno, l’impegno nello ascoltare gli altri ci distrarrebbe.

Credo che la civiltà umana si terminata.

Sentii fra i capelli un vento dato dall’arrivo della metropolitana, in un istante le porte mi si aprirono ed ero pronto ad entrare quando un rumore che provenne da sottoterra ci distolse tutti e come un tuono che rompe il ciel sereno, un gran rombo si ripercosse nel corridoio e uno dei vagoni si ribaltò volando in aria.

L’orologio al mio polso iniziò a girare in maniera veloce, troppo veloce che alla fine si ruppe. Un altro vagone si ribaltò e questa volta la terra tremò, davanti a me si creò una spaccatura nel terreno e poi essa si divaricò fino a creare una voragine. I miei occhi si posarono in basso e vidi una gran folla di anime dal colore rosso che si dimenavano disperatamente e tentavano di liberarsi fra di loro, ma erano legate e non potevano sfuggire: i loro urli erano terribili, le mie orecchie erano doloranti e le sentivo sanguinare. Il liquido rosso scendeva lungo il mio collo e così persi i sensi. Mi sembrava di udire qualche passo, forse qualcuno era scappato, eppure ero convinto che nessuno potesse sopportare quelle grida, perché in fondo ci appartenevano.

Entrai così in un altro mondo, in un mondo diverso, fantastico. In lontananza vidi un cancello e sopra di esso vi erano incise delle parole: lascia ogni logica, abbandona la razionalità, poi potrai accedere.

Mi avvicinai e tentai di aprire lo stesso l’entrata però constatai che era chiuso e le sue sbarre erano alte e si confondevano con il cielo. Allora mi immaginai di essere tornato bambino come durante il racconto della buonanotte quando ogni pensiero diventa incoerente e privo di significato.

Fu allora che le fredde sbarre del portone cedettero e si dissolsero come in un sogno e lasciarono uno spazio. Avanzai ma mi sembrò di scivolare sul pavimento come se esso in realtà non esistesse, il vento soffiava all’altezza dei piedi.

Vidi in fondo alla via un ragazzo, aveva gli occhi chiusi e delle rose color oro sul petto, la testa era leggermente inclinata all’indietro e sembrava sconvolta da un intenso piacere.

Mi avvicinai pian piano, ma il rumore dei mie piedi lo svegliò da quella passione sconvolgente. Gli occhi si aprirono in maniera innaturale e solo successivamente assunse un espressione normale, il suo sguardo mi fissava intensamente.

- Come mai qui? – mi chiese.

- Sono fuggito da un mondo frenetico e senza emozioni.

- Allora hai trovato qui il posto giusto dove rifugiarti, i sentimenti non sono nascosti ma sono il nostro nutrimento. Senza di essi noi non viviamo.

- E’ difficile nutrirsi di emozioni – affermai.

- Il mio cuore batte solo attraverso esse, fui creato dalle favole come il prode eroe, il paladino, il mio appagamento era il salvataggio della donna amata, ma adesso la società di questo tempo mi ha cambiato, sul mio petto è stato fissato un macchinario che produce maggiori sensazioni di prima. Non ho più bisogno di avventure, esse risiedono in un oggetto che si porta in mano, esse mi sostengono. Mi sono lasciato dietro i miei doveri, i miei sogni, ma d’altronde non è colpa mia, sono figlio della mia epoca.

- Come posso immaginare un amante così egoista – commentai.

- Perché invece la società lo immagina e così la massa lo fa, anche tu lo fai.

- Non capisco, spiegamelo di nuovo – ribattei io.

- No, non lo rispiegherò, se vuoi risposte, dirigiti alla tua destra, farai un incontro molto significativo.

Seguii il consiglio dell’arido amante e proseguii sulla mia destra, dritto davanti a me vidi l’atmosfera iniziava a cambiare, il cielo aveva una tonalità di un azzurro molto scuro e le nuvole si addensavano: ero in riva al mare, il sole era ormai tramontato, la sabbia era bagnata dall’acqua salata.

- Che tipo di risposte cerchi? – domandò la voce di una donna.

Il mio volto si spostò sul suo, pallida come la luna, i suoi capelli neri le scendevano lunghi fino alle gambe.

- Non lo so – dissi.

- Oh no! Tu le conosci benissimo, la dispersione, la confusione, è questo che ti frena, pensaci sopra.

Mi chiesi, ma non trovai soluzione. Quando rialzai cercai di nuovo quella presenza femminile, ma mi accorsi che ella si stava lasciando andare all’indietro, il suo corpo a terra ma come la toccò si dissolse in uno stormo di corvi.

Portai le mani al viso per ripararmi, quando gli uccelli erano in alto in volo notai che non vi era più un’indovina, ma tre e fra loro erano tutte uguali.

- Sapresti riconoscere quel’è la vera indovina fra le tre? – domandò la voce di una delle tre donne.

- No, – dissi – siete tutti uguali.

- Hai pensato alla domanda?

- No – risposi.

- Quanta confusione.

Le tre donne si coprirono con un velo e sparirono dalla mia vista, ma ricomparvero dietro alle mie spalle. Ora erano in nove.

- Hai pensato alla domanda? – chiese una fra le nove – Ci sarebbero molte cose da chiedere, il tuo futuro, la tua morte, il tuo passato.

- La mia società non mi ha educato a domandare riguardo tali cose.

- Eppure la curiosità è una caratteristica tipicamente umana, cos’è che è cambiato nell’umanità. Forse il fisico, forse l’espressione, forse la vostra anima.

- L’uomo è stato vinto dal tempo, - dissi – esso ci domina e ci insegna come agire, le macchine ci hanno plasmato a loro somiglianza.

- Allora continua il tuo percorso, uomo macchina, la tua strada continua alle tue spalle.

Mi girai e vidi la via proseguire sotto i miei piedi. Incrociai nuovamente gli occhi dell’indovina per avere conferma, poi mi diressi lungo la direzione indicata.

Un dolce canto proveniva da lontano, melodioso e incantevole. Una luce pallida come la luna usciva da un foro in mezzo al terreno. Rimasi ad ascoltare quasi estasiato, come se tale ode potesse elevarmi a tanta perfezione, poi guardai in basso e vidi una donna che stava immersa nell’acqua, solo la testa emergeva, sembrò non essersi accorta della mia presenza.

Continuarono a trascorrere i secondi, poi quella voce così bella smise di cantare, sapeva di me, ma non azzardava ad alzare la testa.

- Ti stai chiedendo perché rimango con il volto rivolto in basso.

- Si – risposi.

- Puoi ben vedere dal riflesso dell’acqua.

La mia vista notò il volto riflesso sulla superficie acquosa, ma non notai nulla di strano, i capelli di un giallo pallido contornavo la faccia e il naso era piccolo.

- Ancora non noti nulla di strano – disse nuovamente la donna.

Notai come invece della bocca si erano mossi gli occhi, fu allora che ella mi mostrò il suo viso, le palpebre erano abbassate. Parlava dove ogni uomo avrebbe visto e vedeva dove ogni uomo avrebbe parlato.

- Parlo molto di più di quanto posso osservare. Qual è il tuo aspetto? – chiese lei.

- Non saprei, - risposi – non mi riesco a specchiare.

- Come non riesci a specchiarti? Tutti gli uomini si specchiano.

Tentai di allungare il mio sguardo sullo superficie d’acqua sperando di intravedere la mia immagine, ma non ci riuscii.

- Stai tentando di specchiarti? – chiese lei.

- Si.

- E vedi la tua immagine?

- No.

- Ma tu sei umano?

- Credo di esserlo.

- Non si può credere nell’incertezza, come posso fidarmi di una persona che mi da una risposta ambigua, duplice – affermò lei.

- Se dunque specchiarsi è una delle caratteristiche dell’uomo allora non lo sono.

- Da che mondo vieni, o non-umano? – domandò lei.

- Dalla Terra.

- Ricordo la Terra, - disse la donna – ma ricordo anche che vi dominavano gli uomini e vivevano tra le contraddizioni della loro società.

- Ora non più, non vi sono contraddizioni, ma non regna nemmeno l’uomo, è la macchina, è l’orologio a dirci, ad imporci.

La donna protese la sua mano sinistra come per congiungerla con la mia. Allungai anch’io il braccio e mi avvicinai, ma la luce che vi era nell’ambiente era talmente forte che mi ritrassi.

- Che succede?

- Non siamo abituati a così tanta luce nel nostro mondo, noi viviamo nella penombra – commentai.

- Allora chiudi gli occhi e immagina di stare nel buio, tocca la mia mano.

Così feci e con forza mi slanciai in avanti per sfiorare le sottili dita. Viaggiai indietro nel tempo e improvvisamente mi ritrovai in un teatro, stavo tra la folla e accanto a me stava lei, la stessa donna di prima, ma ora potevo vedere i suoi occhi, non erano più usati per parlare, ma per veder. Erano di un marrone nocciola.

Il mio sguardo si puntò sul palco dove delle ballerine danzavano girando su sé stesse, le loro gonne si alzavano fino a creare dei tondi e viste dall’alto creavano un immagine particolare. Risi. Poi dalle quinte apparve un donna, ella portava un vestito bianco ed era candida, teneva le mani sulla pancia dove c’era un rigonfiamento.

Ecco che però si aprì una fessura lungo la chiusura della veste all’altezza della pancia, intravidi la testa di una colomba spuntare ed essa si librò in aria non appena la donna distese le braccia, seguirono altre colombe, insieme volarono intorno alla grande sala e portarono speranza e candore

- Non mi sono mai sentito così bene – osservai.

- Non ricordi dunque? – mi chiese la donna.

- No.

- Forse è troppo presto per dirtelo.

- Dirmi cosa? – domandai.

- Non so il perché del fatto che tu sia qui. Non me lo spiego, non è questo il tuo mondo.

- Quale sarebbe il mio mondo?

- Dovresti rammentarlo perfettamente, è il mondo che parte di noi ha creato.

Ma il vuoto mi circondò e tutto si dissolse per tornare nel luogo da cui eravamo partiti. Le nostre mani ancora erano vicine e i miei occhi erano socchiusi.

- Continua nel tuo percorso, ne avrai bisogno.

Rimasi in silenzio, mi ritrassi e finalmente potei aprire gli occhi. La donna dentro l’acqua mi sorrise doppiamente e così mi alzai e avanzai dritto davanti a me.

Vidi dei fiori cadere ai lati della via che percorrevo ed erano di colore rosso, rosso come il sangue versato. Un uomo stava alla fine della strada, fisso in piedi teneva un cubo tra le mani, potevo distinguerlo anche se ero lontano.

Mi accostai per osservare meglio e nei tratti di quel viso notai qualcosa di familiare, qualcosa che suscitava in me remoti ricordi. Alla sua destra stava seduto un bambino e sulle spalle era coperto da un telo.

Nel viso del bambino ritrovai il mio volto, eppure anche se non ero consapevole del mio aspetto: ero sicuro che quel ragazzino fossi io. La persona accanto a lui era mio padre, rammentai di quando non ebbe più tempo da dedicare per la famiglia, lo stress, il desiderio di evadere lo aveva portato alla completa dipendenza di sensazioni artificiali prodotte da delle macchine che lo rendessero felice.

Sospeso in aria stava il cubo e roteava su sé stesso sul palmo della ruvida mano di mio padre. Mia madre era oscurata in un angolo dall’egoismo, seduta dalla parte di dietro non badava a me, ma rimaneva triste e senza ali, la schiena ne riportava le cicatrici.

Non parlai poiché nessuno sembrava avermi notato. La mia mente era confusa da quelle presenze: perché prima di ora non ero riuscito a ricordarmi di quelle persone? Perché avevo questo gran vuoto? Cosa era successo in tutto questo tempo?

Infine incrociai lo sguardo del bambino, forse era l’unico con cui poteva comunicare, ad essermi vicino: le sue dita si posarono a terra e tracciarono con il sangue una striscia, poi continuò un disegno e vidi in maniera stilizzata una bilancia.

- Cosa vuol dire? – chiesi.

- L’equilibrio.

- Perché l’hai segnato?

- Tu hai equilibrio? – chiese lui.

Rimasi sorpreso dalla domanda, ma la risposta fu istantanea.

- No.

- Siamo cresciuti in un ambiente disordinato e senza armonia, - aggiunse il bambino – dove avremmo potuto imparare tale principio. Nessuno ce l’ha insegnato.

- Perché non ricordo niente del mio passato?

- Perché è finito il tempo dei ricordi, ora stai nel luogo dove l’umanità è privata, sei in quello che noi costruimmo e chiamammo come inferno.

- Inferno. Spiegati meglio, vorresti dire che sono morto?

- Si.

- Com’è possibile, eppure sono ancora cosciente – risposi.

- Non sappiamo com’è l’inferno finché non lo viviamo.

- Ma io non ricordo il giorno in cui trapassai.

- Certo che non ricordi, tutti abbiamo dimenticato cosa è accaduto.

- come fa ad averne conoscenza? – domandai.

- Io sono il tuo passato, vedo le tue azioni e leggo i tuoi pensieri. Tante cose hai fatto. Sei partito dal basso e come tale non eri nessuno, eppure sei riuscito attraverso la tua furbizia ad arrampicarti sopra gli altri ed ad elevarti sempre di più fino a scoprire la punta della piramide che in realtà era inesistente. L’apice non è ricoperto da nessuno.

- Sono dunque stato cattivo – commentai.

- Sei partito con il desiderio di riscatto, hai terminato con la vendetta.

- La vendetta è dunque sbagliata? – domandai.

- Non sta a me giudicare. Alla fine sono i fatti che parlano.

- Cosa accadde?

- Avvenne la fine.

Fu quella parola a farmi ricordare, rimembrai di quella notte in cui grandi fuochi danzavano nel cielo e la televisione trasmetteva come al solito bugie. Vidi fuori per controllare la situazione e osservai come la gente usciva in gran massa dal portone del mio palazzo, ma non me ne preoccupai e continuai a rimanere nel mio appartamento, poi sentii tutto scuotersi e il palazzo cadde.

- Pensiamo che i problemi possano essere sempre rimandati, alla fine ci ritroviamo davanti ad una montagna. Non potrai più scalarla e finirai per lasciarti morire.

- E quindi? – domandai.

- Quella sera molte persone affrontarono le loro montagne e la pazzia si impossessò di loro. Non abbiamo mai tempo per vivere, c’è sempre altro e così la frenesia ha invaso l’umanità. Siamo tutti morti e molti sono caduti.

- Ma perché allora sono finito qui?

- La tua mente è rimasta come ghiacciata per tutto questo tempo, non hai preso coscienza nel mondo dell’Inferno, ma solo qui. Il perché non lo conosco, il perché forse non lo troverai, però c’è stato qualcosa che ti ha condotto qui, qualcosa.

- La visione delle anime urlanti – sussurrai.

- Ti ha fatto tanta paura tale visione? –chiese il bambino.

- Si.

- Non si può sfuggire dal proprio destino – ribatté egli e con questa frase si coprì con la coperta che teneva sulle spalle e nel mistero scomparve. Fu allora che tutto intorno divenne buio e sentii ansia ed insicurezza e quei sentimenti che sono prettamente umani.

Davvero maturiamo crescendo? Diventiamo più uomini? Oppure è il contrario? Perdiamo quello che siamo, ci snaturiamo.

Aprii gli occhi e improvvisamente mi ritrovai nel letto e davanti a me c’era mia madre, sorrideva e i suoi capelli scendevano sulle spalle.

- Questa era la favola della buonanotte.

- Perché sono qui? – chiesi rendendomi conto di essere tornato bambino.

- Sei tornato indietro nel passato, domani potrai cambiare il tuo futuro, domani potrai essere un uomo migliore.

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https://www.gay-forum.it/topic/19010-i-racconti-della-buonanotte/
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Cassius Hueffer

Non so darti un'opinione tecnica sullo stile di scrittura, a questo ci penseranno gli altri, posso però dirti quello che ha suscitato in me: penso che la sensazione di angoscia sia prevalente in tutto il racconto.

Il senso di alienazione dell'intero genere umano che ha sacrificato tutto per raggiungere l'obiettivo di migliorarsi; l'uomo che si fa schiavo del tempo rinunciando spontaneamente alla propria libertà; la corsa incessante contro il tempo che sembra accelerare sono paure comuni a chiunque si trovi a confrontarsi con la frenetica vita quotidiana.

Dall'altro lato, quello che a prima vista sembra una sorta di paradiso, identificato con la supremazia dei sentimenti sull'intelletto, si configura come un mondo altrettanto squallido in cui il piacere si riduce a puro strumento e non vi è più fine, né amore, né atto eroico, solo il piacere per il piacere.

La strada da seguire è indicata dal bambino: l'equilibrio. Non si può vivere solo di ragione, ma neanche solo di sentimento. La conclusione è un nuovo inizio pieno di speranza.

Spero di non aver frainteso il tuo racconto, comunque complimenti, mi è piaciuto molto :D

Silverselfer

E dal cioccolate bistrò che mi era venuta voglia di assaggiarti. Dal punto di vista musicale mi pizzichi sempre sul capezzolo sinistro, ma come fai a conoscere tutti i miei pezzi preferiti?

 

Ok, ora parliamo del racconto. Certo è da tener conto che segui istintivamente le immagini e qualche frase evocata dal video, tuttavia l'insieme è troppo lungo per essere bevuto tutto in un sorso. Dovrebbe avere una struttura più geometrica che ne migliori la fruibilità.

 

La consecutio temporum è pasticciata e rende la storia difficile da collocare nei suoi prima e dopo e durante. Oltre alla sintassi si avverte anche un'eccessiva variabilità del registro lessicale. Sicuramente quando abbandoni il tempo storico per intraprendere i dialoghi, tutto diventa più fluido.

 

Il simbolismo preso a prestito dal video, purtroppo diventa impersonale. Adoro gli occhi che avevano smesso di vedere per parlare e la bocca che ammirava invece di proferire. Questa è decisamente l'allegoria meglio riuscita della società dell'immagine che vive nell'incanto di se stessa: incapacità di autocritica.

Per il resto torniamo alla vaghezza, ma non perché non ci siano spunti di riflessione molto pregiati, forse ce ne sono troppi e andavano meglio organizzati con una struttura che almeno identificasse il protagonista, il tempo del racconto e il luogo dove si svolgono gli eventi.

 

Entrando più propriamente nelle argomentazioni, si parte da una descrizione che, per il vero, io non trovo neanche più molto contingente. La lettura mi ha evocato immagini tipo Tempi moderni con charlie Caplin che viene inghiottito dagli ingranaggi della gigantesca macchina produttiva della fabbrica, Metropolis con la sua società massificante, 1984 o di tutto un po' come nel video storico dei Queen "Radio Gaga" ... solo che, personalmente, leggendo quotidianamente le notizie dal mondo, io ho la percezione che stiamo compiendo lo step successivo a tutto questo. Insomma, la tua descrizione mi crea un déjà vu che poco si confà ad una proiezione, se non futuristica, almeno attinente al tempo presente.

 

Nella parte centrale abbandoni i caratteri generali del cappello descrittivo, personalizzando il racconto introducendo il protagonista. Qui si sente molto il flusso della scrittura scevra da ogni schema preordinato. Il protagonista si materializza tra le descrizioni, senza alcuna presentazione o descrizione. Potrebbe essere considerato un errore, ma a me piace questa ombra tra le ombre che si delinea solo nel pensiero, come una nota in una sorta di melodia dodecafonica.

 

Da qui in poi il simbolismo assume caratteri sempre più personali, fino a giungere direttamente al dialogo tra l'autore e le immagini che egli stesso sta evocando. Il racconto a questo punto diventa qualcosa di altro. Forse un discorso intimista con l'inconscio. La psicoanalisi del sogno soppianta ogni velleità di discorso universale. Il riflesso che il protagonista cerca di discernere nello specchio d'acqua si vela pudicamente, ma da chi si nasconde se non dallo sguardo dell'autore stesso? L' amata madre si confonde ambiguamente con quella sorte di Gorgone dagli occhi che parlano, occhi che giudicano severamente e bocca che guarda, stigmatizzando nel riflesso delle sue parole. Lo stesso equilibrio evocato, sembra piuttosto l'estrema ricerca di un'equazione matematica che annulli con una contropartita ciò che non si ha il coraggio di svelare, appunto il fanciullo, appunto la sincerità, appunto il riflesso innegabile che lo specchio d'acqua riverbera negli occhi del protagonista.

 

Il colpo di scena finale vorrebbe essere tale, in realtà non lo è. SI cerca di sottrarre all'onirico la storia, richiamando il ritorno al passato compiuta per uscire dagli inferi delle anime urlanti. A me questo espediente non è piaciuto molto, mi pare una forzatura. Sfrondando tutti i richiami che confortano la tesi del ritorno al passato, ci si ritrova, invece, con una chiusa perfettamente in linea all'ultima parte del racconto. Il bambino velato esce dal suo nascondiglio sotto le coperte e non vede più le anime urlanti che gli evocano un futuro infernale. Si sveglia ritrovandosi nel suo accogliente lettuccio, beandosi dell'incanto dell'amorevole madre che ... racconta, parla, cioè evoca quelle stesse fiabe che parlando del futuro spaventano il bambino, il quale le fugge nascondendosi. Le anime urlanti che atterriscono il fanciullo sono evocate dalla madre ... non è fantastico tutto ciò? Un finale proprio da film horror .. . :shok:

 

DogV voglio leggere qualcos'altro di tuo ...

@, ma tu sei un genio, hai fatto una critica formidabile. Si purtroppo è un po' pasticciato nel modo di scrivere XD creai questo racconto quando avevo 17 anni, l'ho rivisto un po' prima di pubblicarlo qui, ma credo di non essere proprio portato per la lingua italiana XD

Concordo su tutte le critiche, anche se alcune non saprei come attuarle per mia ignoranza XD e comunque si ero molto ispirato da 1984, hai detto bene quando l'atmosfera iniziale ti ricorda la distopia.

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