Jump to content

Il vento del sé


messermanny

Recommended Posts

Presentazione

 

Questo è un mio esperimento di racconto a puntate, un po' come tanti qui dentro. Nasce per noia, il 23 dicembre dell'anno appena passato, al momento conta un capitolo nella sua riscrittura.

Contiene un linguaggio talvolta forte, e non è politicamente corretto, non lo sarà e non ci tiene ad esserlo, siete avvisati.

 

La storia di questo testo è travagliata, @@GreenLamb ha letto quello che era il precursore, in terza persona. Con i miei tempi biblici. Cestinato, forse spiegherò poi il perché.

Anche lui troverà tutto diverso, in primis, il punto di vista.

 

La trama

 

Zack Dela Crois è un detective con una vita per la quale, un giorno rientrando a casa trova uno strano messaggio.

 

Filone

 

Testo introspettivo, una sorta di misto tra un'autocritica/critica/analisi/fantastico/noir/tuttoquellochemepare.

 

Enjoy :-D

 

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

 

Il vento del sé

Capitolo primo - Little John.

 

“La pistola fumò…”

Non potrò mai scordare quel colpo lanciato come un tradimento, mi portò via l’unica persona che avessi mai amato, mi portò via la vita. Sparai che avevo un “perché” per farlo, e mi ripresi che avevo distrutto tutto. Il mostro non perdonò neanche me, il vento del “sé” mi raggiunse come una brezza, ed ancora oggi ne pago le conseguenze.

Erano anni strani, particolari, di un grigio topo ed un nero pece, erano anni nei quali essere un detective, per giunta gay, non aiutava. Il perché è presto detto, e basterebbe solo questa parola per farvi capire; Gateville.

Oltre a parole come; leviatano, fanatismo religioso, squadre punitive, libertà ridotta, criminalità, Harvey Milk, estorsione, traffico di droga, prostituzione e così via. La città del vizio e delle croci, la città del tutto e del niente, la città del pensiero e della mazza chiodata. Un mostro di cemento finto sorridente che avrebbe fatto paura persino ai più accaniti giallisti, non è di certo un merito per quel che mi riguarda, ma così era. Le palazzine tutte uguali per un massimo di sette piani, che sembrava d’essere perennemente sulla stessa strada dove le uniche indicazioni erano date dalle insegne dei locali, queste illuminate e sfarzose. Tra tutti questi, uno in particolare è l’inizio della storia.

Harvey Milk, squallido buco da quattro soldi, sporco e marcio al suo interno, dove chi era come me poteva rimediare ben altri buchi con i quali divertirsi. Dall’entrata si notava già la differenza con il resto dei luoghi in città, mancava l’insegna e per questo la clientela sembrava essere più “selezionata”, perlomeno dovevi informarti sul luogo e se ti informavi era per voglia di provare o per andare a colpo sicuro. Difficile era informarsi per tentare una retata, o un omicidio singolo, in quel posto. All’ingresso un piccolo tavolo, una piccola cassetta porta valori, una sedia, e “Little John”. Quest’uomo avrà avuto sulla cinquantina, guardava tutti brutto, e si vociferava il nomignolo derivasse dalle dimensioni dei suoi gioielli di famiglia. Una volta mi raccontò d’esser stato cercato e passato da un uomo all’altro, mi convinsi che la colpa potesse essere del suo sguardo, l’unica cosa bella che aveva, l’unica cosa che non mi faceva rimpiangerlo.

«Ciao.» mi salutò come si confà ad un cliente abituale col quale s’è parlato della propria vita, o di parte d’essa, salutai accennando un gesto con la mano. «Come stai John?» chiesi come per circostanza. «Tutto bene, come al solito.» mi rispose mentre gli allungavo una banconota da dieci pezzi, un prezzo d’entrata che veniva spacciato come offerta libera. «C’è roba interessante stasera?» domandai interessato, non mi rispose ma si limitò a strizzare l’occhio sinistro; in definitiva ciò significava che nel locale c’era gente che poteva interessarmi. Non mi sono mai ritenuto uno dai gusti particolarmente difficili, in effetti per me c’era sempre un motivo per andare all’Harvey, ma semmai avessi dovuto scegliere li avrei preferiti magri e delicati nelle fattezze del viso. Forse stereotipi, ma che ci volete fare, bisogna avere un tipo ideale molto elevato in maniera che poi le aspettative reali ricadranno sempre su versioni accettabili. Entrai senza esitare più di tanto dopo aver congedato il piccolo John, e la sala principale era quel che era, da anni.

Una grande sala piena di sedie e sgabelli, gente che conversava ed un bancone da bar. Ben fornito nonostante tutto, se per fornitura si intende della roba pesante, il barman ormai era in amicizia. «Il solito.» dissi senza colpo ferire alzando la mano anche con lui in segno di saluto. Tutt’intorno il muro era nero, i posti a sedere rosa, ma tuttavia la parte più interessante era costituita dai camerini e dal percorso al buio, un posto frequentato da chi aveva qualche anno in più. Dicevano ci fosse il gusto del proibito e della scoperta, personalmente non ci ho mai visto nulla di eccitante in uno strusciarsi di corpi che sembrava la corriera delle due del pomeriggio.

Finalmente il tizio dietro il bancone mi mollò il mio liquore shakerato con ghiaccio, e nonostante tutto, mi accesi una sigaretta, nessun divieto in quel posto. Fui osservato a lungo da un uomo, avrà avuto sui cinquant’anni, grasso e con chi sa quale famiglia alle spalle. Mi guardò come a chiedermi di seguirlo, ma da bravo ventiquattrenne tendevo a rifiutare proposte del genere, tuttavia poco dopo trovai la mia preda.

Era carino, o sì, decisamente. Corporatura nella norma, in forma, capelli lisci mediamente lunghi, un cerbiatto indifeso in un branco di leoni. Mi avvicinai portandomi il bicchiere con me, la sigaretta ancora accesa. Lui s’accorse ovviamente, ma fece finta di nulla. «Che ci fa uno come te qui?», si voltò e mi guardò accennando un sorriso, poco dopo eravamo a parlare del più e del meno come il domandarsi di esperienze passate, il come ci si era scoperti ed il perché si era in quel posto. Stranamente era la prima volta che parlavo così tanto con uno all’Harvey, il piccolo John ci aveva visto giusto, c’era qualcosa di veramente interessante lì.

«E perciò in fine di tutto, che ne dici se ci appartassimo un po’?» interessante sì, ma io volevo concludere, in fondo era questo ciò che mi interessava ed era questo che più d’ogni altra cosa muoveva il nostro mondo di seconda mano. Lo vidi esitare, lo vidi chiedersi il perché della sua passata in quel locale. Poi farfugliò qualcosa. «Non dirmi che non l’hai mai fatto!» esclamai senza curarmi degli altri ospiti nel bar, poi con fare tranquillo e pacato lo rasserenai, «Non è un problema, possiamo prenderci tutto il tempo…». La prima volta è dolorosa per tutti, si sa, la prima volta è la prima e tanto basta a far capire. Glissò la risposta con un fare prescioloso, tanto che andò via di corsa ed io rimasi con un bel pugno di mosche.

Se ne andò non prima di avermi detto, però, che con me ci avrebbe provato volentieri; gli ispiravo fiducia, diceva. Mi son sempre chiesto secondo quale logica io alla gente ispirassi fiducia, e quella serata la passai ad adocchiare qualcun altro di molto diverso da colui che, col senno di poi, mi prese il cuore. Più che altro ogni volta mi domandavo se non ci potesse essere una via migliore, una possibilità di vivere tutto questo alla luce del sole; perché dovevo chiudermi in un posto squallido come l’Harvey Milk piuttosto che incontrare la gente per strada? Era questa la mia domanda principale, che come ogni volta trovava la strada sbarrata dalla risposta tipo; e se non tutti sono come te, pensa se becchi quello sbagliato.

Ed in effetti era proprio questo, Gateville non viveva un buon rapporto con la sua popolazione gay, lesbica e transessuale, a prescindere che questa città non godeva di un buon rapporto con nessuno. Cane canem, il grande mangia il piccolo ed una mentalità chiusa e bigotta, accecata dalla religione e spinta dal fanatismo della ricerca di una vita “normale”, aveva chiuso le porte al riconoscimento di una realtà di fatto. Questo ci obbligava a vivere segregati, come cimici e tarli, come cancri di una società statale che dallo stato stesso tutto pretendevano. E forse più di quel che potevano.

Quella sera tuttavia tornai a casa, leggermente brillo, cosa che per me era un traguardo eccezionale di sobrietà. L’indomani sarei dovuto tornare al lavoro, e quando non c’erano casi ai quali lavorare spesso mi toccava il riempire cartacce dietro ad una scrivania.

Io ero un detective, non il migliore sicuramente, o almeno non mi ritenevo tale. Ma di certo ero quello col maggior numero di casi risolti all’attivo, nonostante la mia giovane età. E vorrei ben vedere, quando uno si dedica al lavoro anima e corpo può tutto, inoltre, investigare a me piaceva nonostante scoprii che fare l’investigatore altro era dallo stereotipo del correre appresso ai malviventi e sparargli. Quelle sono robe per i racconti, robe di chi non ne capisce, il nostro lavoro era di testa e di fredda analisi di tutte le possibili variabili, ed erano molte, l’alcool aiutava a tenerle a mente o a non farlo. Non ho mai conosciuto uno come me che non bevesse.

La strada quella sera mi sembrò più cupa e fredda del solito, non che le altre volte mi sembrava una parata carnevalesca, tuttavia quella sera aveva del di diverso come il sentore di qualcosa che da lì a poco sarebbe accaduta. Te lo senti sulla pelle, e nonostante la temperatura mite sudi freddo. Presi le chiavi per aprire la porta, il rumore fu lo stesso di sempre, le mandate le solite ed il cigolio anche. Sul mobile di fianco all’entrata accesi l’interruttore e fu la luce, in quei momenti è come essere il Dio, come dare la vita ad un ubriaco di notte. Tutto mi sembrò nella norma fin da principio, tutto a parte un foglio di carta messo in bella vista sul pavimento dell’ingresso, come se ci fosse stato poggiato con cura vista anche l’angolazione. «E questo che roba è?» pensai ad alta voce, in un perfetto dialogo con il nulla, poi m’avvicinai e chinandomi presi il foglio in mano. Era scritto con una grafia difficilmente leggibile, sembrava come se chi avesse tracciato non fosse mai andato a scuola, o comunque, avesse scritto per la prima volta su della carta. A primo impatto pensai a qualcuno con qualche sorta di problema alle mani. Lessi.

 

Ho la risposta alle tue domande.

Ti offro il mio aiuto per capire, ma alle mie condizioni.

Se pensi di accettare scrivilo su questo foglio, lascialo nello stesso posto dove lo hai trovato, ed esci di casa. Al ritorno avrai la mia risposta.

 

Dire che tutto mi sembrò strano è superfluo, pertanto accantonai il foglio e me ne andai a dormire. Non so perché quella volta non gettai il tutto, forse per l’unicità dell’evento, non ricordo cosa mi passò per la mente.

L’indomani mi svegliai come di consueto prima dell’alba, andai in mutande alla finestra, mi versai un bicchiere e guardai fuori. Notai sistematicamente come il leviatano cittadino cominciava a destarsi dalla notte precedente; dapprima i fornai, poi chi rimaneva a lavorare di notte, poi tutti gli altri tra cui io. Mi chiesi come sempre, in quel frangente, perché la gente fosse tanto sciocca da non vedere la frenesia che quel mondo portava al limite. Poi decisi di andarmene finalmente al lavoro, sistemandomi, lavandomi e facendo colazione.

Uscì di casa convinto di poter affrontare la scrivania, e così fu, messo davanti a dei plichi e protocolli da riempire. Niente di particolare se non per la noia ed il divieto di fumare nell’ufficio condiviso. Il mio collega, una noiosa mosca distruggi palle, aleggiò il dito dalla scrivania accanto la mia. «Ehi, Zack, sai che stasera porto la mia donna a cena?», sorrisi visto che non c’era niente di meglio da fare, «Dove te ne vai di bello?» chiesi, facendo finta di interessarmi. Tutti sapevano che quel tizio la moglie la tradiva con la segretaria all’entrata, una tipa che prendeva le chiamate e le smerciava alle varie direttive, un lavoro inutile ed una sedia scaldata senza motivo visto che lì di chiamate ne arrivavano poche, tante quelle operative, ma in quel caso c’era un centralino apposito.

«Ce ne andiamo da Boe, nella 34esima, dicono si spenda bene e si mangi altrettanto bene, te ci sei mai stato?», mi domandò tornando a scrivere sui fogli, «No, non frequento molti ristoranti, mi cucino da solo.» «Ma dai Zack, quando avrai una donna capirai! Dovrai assecondarla dopotutto, e poi com’è possibile che tu a ventiquattro anni non ne abbia una affianco?» ricevetti questa risposta e senza tanto pensarci su dissi che non avevo trovato quella giusta. Nel nostro mondo arrivare a quell’età e non essere nemmeno fidanzati corrispondeva quasi ad un peccato capitale, forse a qualcuno farà ridere, la facciata di quella città era perfettamente pulita come un tappeto. Ma si sa che è sotto i tappeti che s’accumula la polvere. Risposto e salutato per circostanza, mi alzai e me ne andai a bere del caffè, l’unica cosa che potevo bere in quel luogo. Lì vi incontrai il mio ispettore, Joshua Hewer era quanto di più tendente al paradosso avessi mai conosciuto. In anni di servizio nessuno era riuscito ad andare oltre la dura scorza dell’uomo, sembrava una fortezza inespugnabile di ferro e questo lo rendeva quasi un mito, dappertutto veniva considerato come un piccolo essere superiore, zoppicava leggermente verso la gamba sinistra e malediceva tutto e tutti ogni volta che cambiava il tempo ed il ginocchio gli pulsava più forte del solito. Ormai il sovrappeso s’era impossessato di lui, e il lavoro d’ufficio rimaneva tutto quel che aveva, nonostante avesse una mente brillante.

«Ecco il capo!» apostrofai ridendo, mi salutò in modo informale. «Tutto bene il lavoro alla scrivania?» mi chiese mentre prendevo un bicchiere vuoto, «Non c’è male, in tempo di magra…» «Capisco, purtroppo anche quella è una cosa che va fatta.» mi rispose mentre mi riempivo del caffè, poi prese una pausa per sorseggiare il suo. «Abbiamo uno nuovo Zack, un detective, come te. Ti andrebbe di “sverginarlo” al mestiere?» «Dai capo, sai bene che non sono bravo in queste cose!» risposi mentre cominciai a bere il nero, tuttavia alla fine accettai e per questo mi ritrovai ad aspettare chissà chi, con la speranza di dire chissà cosa.

Poco dopo arrivò la sorpresa, che mi sembrò d’essere tornato all’Harvey, nel buon vecchio localuccio squallido e puzzolente, davanti a me avevo Brandon, quel ragazzo che la sera prima m’era sfuggito. Non sto a raccontare della sua sorpresa, sgranò gli occhi nel vedermi ed io feci altrettanto. «Perciò sei tu il nuovo detective?» Domandai guardandolo, «Sembra di sì, ma non sapevo tu…» «Io lavoro qui, il capo è occupato, mi hanno chiesto di farti da guida e di spiegarti come funziona.» perciò lo invitai a sedersi, e a darmi un documento. Osservai la carta, presi una penna e comincia a trascrivere i dati «Non sei di qui, qua c’è scritto che vieni da Greenshire, bel posto tra le altre cose.» «Sì, bè, tutta campagna sai.» quel luogo era in periferia, di media chi arrivava da lì rimaneva in città e si spostava per tentare una vita migliore. Ma di rado avevamo detective che arrivavano dalla periferia, nessuna scuola, polizia che risolve pochi casi, in breve non era l’humus migliore per far crescere una mente analitica e fredda. «Sì, lo so. E come mai sei arrivato fin qui?» a questa domanda il ragazzo deglutì, poi rispose «Per tentare una strada migliore, voglio dire, a Greenshire non c’è molto da fare.» «Posso immaginare.». Riconsegnai il documento e mi alzai, facendomi seguire. Uscimmo per il corridoio e da lì cominciai a parlare al ragazzo illustrando i ruoli e cercando di dare dei rapidi consigli da uno che s’era fatto le ossa in vita vissuta «Il tuo capo è l’ispettore Hewer, degli altri ti deve interessare poco, credimi. Inoltre, il caffè è l’unica cosa decente e, prima di tutto, prenditi dei casi all’apparenza facili, ma per quelli credo ti indirizzerò io.» notai come seguiva le mie indicazioni e continuai «Per qualsiasi cosa puoi rivolgerti in segreteria, se hai bisogno di una testa in più per risolvere qualche caso chiedi, si trova sempre qualcuno libero. Molto probabilmente comincerai da subito, a proposito, puoi cominciare oggi?» «Credo di sì, cioè, sì!» «Bene. Allora seguimi, imparerai poi ad orientarti, ma non è complesso.» sorrise e l’accompagnai nel mio ufficio, dove il collega ancora stava compilando carte. Presi una sedia, feci le presentazioni e indicai al ragazzo di sedersi. Tutto passò liscio come olio, il tempo fece il suo corso e la giornata fu tranquilla nel riempire moduli e cedolini. In definitiva non vi fu nulla di noioso, né tantomeno di troppo ripetitivo.

Ci si congedò, feci andar via prima Brandon almeno di un’ora, poi me ne andai io. Col senno di poi non mi convenne mantenere il giusto orario, sarebbe stato meglio fare degli straordinari anche se non retribuiti. Comunque quella sera tornai a casa, un po’ sollevato e con tanta voglia di sfogarmi, forse sarei tornato all’Harvey, o almeno era quello il piano. Il punto è che non appena aprì la porta ed accesi la luce trovai di nuovo un foglio a terra. Mi venne in mente la serata precedente, sospirai, era evidente che qualcuno mi pedinava. Mi avvicinai, mi chinai e raccolsi il foglio, lo lessi; identico al precedente. E quel che scoprii, d’interessante, era che non solo il messaggio era lo stesso, proprio il foglio era quello del giorno prima. Sparito dal luogo nel quale l’avevo riposto, era tornato al centro della stanza, nella stessa angolazione, millimetricamente perfetto. Sgranai gli occhi, dovevo trovare una soluzione, estirpare immediatamente la radice del problema e decisi, dopo un buon bicchiere, di stare al suo gioco. Presi a quel punto carta e penna e scrissi su un pezzo di carta;

 

E quali sarebbero le condizioni?.

 

Poggiai il foglio al centro del soggiorno, inclinandolo verso la porta, e poi uscì di casa proseguendo per l’Harvey. Nonostante questo non riuscì a concludere nulla, quella sera la passai chiedendomi se al ritorno avessi trovato una risposta. E se il tutto avesse avuto esisto positivo non avrei avuto dubbi; mi pedinavano.

Perciò, con un po’ di rammarico e la consapevolezza di voler tornare sui miei passi, lasciai il locale. Le luci della strada apparvero spente e cupe, e più m’avvicinavo più notai che esse si scurivano, quasi volessero scherzare con me. Facendo susseguire un passo all’altro arrivai davanti casa che era quasi del tutto buio, inforcai le chiavi, sentì il chiavistello girare, il solito cigolio. Accesi la luce e lo trovai. Un foglio di carta nuovo di zecca al posto del mio che non c’era più, come al solito mi chinai a raccogliere e lessi;

 

Vedo che in cuor tuo hai accettato, la vera realtà di questa società è più marcia di ogni facciata di ritorno che può montarsi.

Le mie condizioni le scoprirai strada facendo, ora recati al parco sulla 15esima, terza panchina a destra dall’entrata, plico sotto di essa.

 

Nel leggere sorrisi istericamente, decisi che non sarei andato al parco ma effettivamente poco dopo mi trovai in strada come spinto da una forza superiore. La 15esima era distante da casa, mi ci sarebbe voluta una buona ora per arrivare. Stavolta tuttavia le luci furono stabili.

Quel posto era sempre deserto, meta di qualche spacciatore minore, e di qualche compratore della fascia media della popolazione, ma soprattutto posto di scambio per la fascia bassa. Prezzi popolari e novellini venditori, di quelli che ancora non hanno la parola “ti uccido” per ogni cosa, si vociferava il fumo fosse buono. Personalmente non ho mai desiderato provarne, sempre preferito il semplice tabacco.

Il cancello dell’entrata era assai spettrale, in ferro battuto e contornato da angeli, figure alate e stilizzate tanto da non poterne individuare il sesso. Una targa incisa portava la citazione; “La verità ci renderà liberi”, non sapevo di chi fosse ma sapevo esserla una di quelle frasi abusate sin dalla notte dei tempi, e dei secoli, nei secoli. Entrai ripetendomi nella mente che effettivamente la libertà mi avrebbe reso libero, e anche un po’ più smaliziato nei confronti della realtà che avrei vissuto, magari in quel mondo mancava proprio quello; il sentirsi liberi.

Passai e dalla strada principale cominciai a contare le panchine, non ci volle poi molto per arrivare alla terza di destra, e lì guardare sotto. Una piccola busta era presente, la presi, il foglio di carta aveva ragione e chiunque l’avesse scritto aveva portato lì quel plico. Tuttavia non l’aprii, decisi che l’avrei fatto a casa e che, sicuramente, l’avrei fatto davanti ad un buon liquore. Uscì alla svelta dal parco, un tizio in lontananza aveva già preso ad osservarmi pensando fossi lì per comprare della roba, non era così, pian piano mi lasciavo indietro quegli alberi piangenti e grondanti storie ignobili di vita sciupata.

L’anoressia nelle emozioni, il desiderio di capire, comprendere il mondo. Era questo quel che mi aveva offerto il misterioso pedinatore? E soprattutto; chi era? Mille domande mi ronzavano in testa come uno sciame d’api senza alveare. Ero certo però che prima o poi ne avrei trovate di risposte e nel senso del possesso fatte mie, tanto per togliermi qualche curiosità. La strada al ritorno la divorai come all’andata non avevo fatto, nessun pensiero nel quale affogare, e la notte sola a farmi compagnia. Solito giro di chiavi, solito chiavistello, solito cigolio.

Accesi la luce e senza perdere tempo mi riempii un bicchiere, poi seduto decisi che fosse arrivato il momento di aprire la busta. Non avrei mai sopportato l’idea di passare tutta la prossima giornata senza averne analizzato il contenuto, dicevano la curiosità fosse donna, in realtà era di tutti e tutti se ne avvalevano come scusa per ficcare il naso in affari non loro. Strappai il lembo chiuso, e ne uscirono delle foto, un foglio ed una scatolina. La dimensione del pacchetto sembrava giusta quella di un paio d’occhiali, e da bravo detective arrivai ad ipotizzare che forse proprio di quello si trattava. Ma anzitutto diedi uno sguardo alle foto.

All’inizio non ci credetti, infatti poggiai le pellicole e bevvi in fretta l’alcool in modo che mi bruciasse in gola e mi facesse sentire vivo, grattai le corde vocali come si fa in questi casi e con coraggio presi nuovamente in mano gli scatti. Ritraevano tutti “Little John”, questo era certo. Nella prima c’era lui intento a stuprare quel che sembrava un ragazzo, piangente, disperato, piccolo. Ancora una volta deglutì con fatica, John non era quel gran bravo figlio di pantegana che voleva far credere, pedofilo schifoso. E lì cominciai appena a capire cosa, l’uomo dei fogli, volesse dirmi. Con gli occhi rassegnati notai la sua espressione di godimento, la sua foga, lo scatto era professionale quasi fosse appartenuto ad una collezione privata. I colori erano caldi come una candela accesa, la foto ritraeva anche parte di una camera da letto, probabilmente quella dell’uomo. Le altre foto erano simili, tutti bambini, tutte con lui e la sua espressione ghignante di piacere, e sempre la stessa stanza. I bambini erano accomunati dal fatto di sembrare come sporchi e maltenuti, nonché malnutriti, questo mi fece pensare che li adescasse tra i poveri della popolazione, forse in periferia.

Poggiai le foto, finì di bere come se nulla fosse successo, ripresi in mano il foglio che accompagnava il tutto e, alzandomi in piedi, cominciai a leggerlo;

 

La realtà non è sempre quel che sembra, sotto l’apparenza la gente nasconde nefasti pensieri e racconti, la nostra civiltà si rinchiude in casa per questi motivi. Un uomo domani sera perderà la vita, tu sai già chi, la mia condizione per adesso è che tu faccia una scelta.

E la scelta è tra il salvare Little John oppure lasciarlo morire.

Nel caso muoia, lo avrai sulla coscienza, nel caso rimanga vivo un innocente e puro prenderà il suo posto, lasciando nella società un pedofilo libero di continuare a fare quel che fa. Da anni.

Riterrò la tua scelta valida domani per le ventidue esatte, sai come contattarmi.

 

Imparerai mai a perdonare, detective?

 

Inutile dire che mi sorpresi, inutile dire che inizialmente provai tanta rabbia che lanciai il bicchiere contro il muro, volò frantumandosi in pezzi di vetro. Avrei voluto spaccare ogni cosa, una ferita nella ferita, la piaga che non si rimargina, è così la rabbia. Ed è così che si fa strada nella vita, intendo dire che, nel momento in cui ti agiti tutto va a farsi benedire e crolla come un castello di carte, vedi rosso, e devi contare fino a dieci anche se delle volte puoi arrivare a venti.

Cercai di farmela passare, sapevo già non avrei dormito, come avrei potuto con tale peso. E ne convenni con me stesso riguardo alla necessità di trovare una soluzione, conoscevo John, come era possibile facesse queste cose? Ogni volta il pensiero e l’agire umano sconvolgevano la mia vita, e oltre la mia suppongo quelle di tutti. Siamo come legati con un filo indissolubile, materia, pura energia, e mettici anche “questioni di soldi”, d’amore, di sesso, di alcolismo, di droga, di conoscenza, e tante altre belle cose. Decisi di uscire di casa prima che i pensieri mi divorassero.

Ormai la città era spenta come l’ultimo caffè, era tardi, rimanevano pochi locali aperti e seguì la mia mente che, spronandomi, mi mandò su uno sgabello a chiedere qualcosa di forte. «Come va la serata, amico?» chiesi al barista mentre era impegnato a pulire i bicchieri, «Bene, bene. S’è lavorato.» mi rispose guardando il fondo del locale, vuoto. Eravamo io, lui, un paio di tizi che parlavano ed un disco che andava, jazz. Ho sempre avuto un rapporto strano con quella musica, mi piaceva e mi piace, eppure tante volte anche le melodie che dovrebbero essere allegre mi intristiscono, portano fuori quella parte malinconica di me. Ad esempio “Stardust” di Coltrane, mi ha sempre fatto piangere. «E così il lavoro va. Ma senti, senti qua; Che faresti se un tuo amico si trovasse in una situazione “strana”?» gli chiesi, devo ammetterlo, quella sera alzai talmente tanto il gomito che il mondo m’apparve rallentato come una tartaruga al rallentatore. Mi sembrò come se il barista ci avesse messo una vita per rispondermi e chiedermi più dettagli sul tipo di situazione, in effetti “strana” era un concetto troppo vago.

«Intendo una situazione di morte, amico!» «Allora cercherei di salvarlo.» mi rispose, era palese non conoscesse John, era certo non sapesse quel che io conoscevo del piccolo. Ma non potevo dirglielo, mi tenni tutto per me e finimmo a parlare della situazione del mondo, dopo un po’, non so come ma uscì da quel buco.

Fuori dal locale albeggiava, mi tenni a stento contro la parete del palazzo, ci schiacciai contro la schiena e presi con fatica una sigaretta. L’accensione fu altrettanto traumatica, fumai per quel che riuscì guardando il cielo. Mille i dubbi come mille le possibilità di fuga. Ricapitolando; un tizio che non conoscevo, ma che mi pedinava, mi aveva offerto il suo aiuto a capire questa società a patto che io gli avessi lasciato uccidere un mio conoscente. Questo mio conoscente era un pedofilo, mentre al posto suo avrebbe ucciso un innocente, che non so chi, non so come, non so cosa.

Faceva ridere tutto ciò, sicuramente questo “Mister X” mi aveva visto ora, mentre cercavo di accendermi una sigaretta. Ma albeggiava, e a me veder l’alba piace, sembra quasi ti sollevi dalle domande e ti porti in una dimensione tutta sua, una cosa che va oltre la vita, oltre il tuo squallido esempio di civiltà, e di città. Sospirai.

Poi camminai, sarei dovuto recarmi a lavoro, non ci sarei riuscito più di tanto, e se mi avessero visto in quelle condizioni, avrei subito un licenziamento in tronco. L’ispettore Hewer mi aveva coperto ormai troppe volte, e potevo ben immaginare che questa l’avrebbe vista come un affronto alla sua autorità e gentilezza.

Ad un tratto la scintilla, mandare tutto al diavolo e lasciar morire il piccolo John, sarebbe stata un’idea, la mia scelta, avrei salvato un innocente ed ucciso un pedofilo; il sogno di tutti quei perbenisti ronzanti, quelli che parlano di salvare gli animali ma guai se gli togli la carne, oppure quelli che le specie in via d’estinzione non si abbattono con l’insetticida, a patto che non infestino le loro case. Questa decisione la presi prima di recarmi al parco dove, qualche ora prima, raccolsi la busta con le foto.

Era giorno, gli spacciatori ormai se n’erano andati, un lento via vai di gente segnava il passo di una società frettolosa e disattenta, e la panchina era il posto per quelli come me, quelli che si tiravano fuori da quell’afflusso di gente disorientata, e nel cuore sperduta. C’erano dei bimbi con i nonni, a dar da mangiare ai piccioni, questa è una mania che mai capirò; nutrire un animale non tuo. Era giorno, ed ero lì a contemplare il creato cercando di farmi passare la sbornia e le cattive intenzioni come quella di distruggere il pianeta. Mi raccolsi, e notando la minor fatica richiesta, mi alzai e decisi di parlare con John. Non sapevo dove trovarlo, questo mi porto davanti all’Harvey, chiuso, mi guardai intorno e mi ricordai di conoscere l’ubicazione di uno dei gestori, madame Jenevé.

Una trans, ormai completamente donna, in cerca di uomini famelici. Ogni tanto ci avevo chiacchierato, mi disse d’abitare sulla 27esima, quinta altezza, credeva io potessi e volessi farci qualcosa. Rimanemmo comunque ottimi conoscenti. La sua casa era al quarto piano d’un palazzo grigio, come tanti altri, citofonai e la trovai all’interno, mi aprì subito quando gli dissi chi fossi. Nell’ascensore pensai che, sicuramente, mi avrebbe tenuto lì molto tempo e che sicuramente si sarebbe aspettata che gli avessi citofonato per un mio cambiamento di idee nei suoi confronti.

Nulla di più giusto, mi aprì la porta che era in vestaglia, vestita di niente a parte quella e il mio mal di testa che s’imponeva a ritmo di quattro quarti. «Ehi ciao tesoro! Posso offrirti qualcosa?» mi chiese mentre mi fece accomodare e sedere, «No, grazie. Non sono qui per quel che pensi.» «No? E per cosa allora?» mi chiese, prima di rispondergli presi una sigaretta dal taschino e gliela feci vedere con la mano, come a chiedergli il permesso di fumare. Con un cenno della testa mi accordò la possibilità, accesi quindi il cilindro e lo portai alla bocca. «Little John. Mi serve sapere dov’è che lo posso trovare, ora.» dissi dopo aver tirato una boccata, «E perché dovrei dirtelo?» mi rispose, secondo me s’era innervosita del fatto che fossi lì non per lei, intendo, le donne sono strane e delle volte mal comprendono l’altro sesso. Si potrebbe dire forse lo stesso degli uomini, no, non capirebbero male se le dolci metà non fossero così complicate. Delle volte è meglio un buon bicchiere ad una scopata.

«Perché so che sai.» «Queste sono informazioni personali.» «Però, quando ti ho chiesto l’indirizzo di quel tipo, una settimana fa, mica ti sei fatta tutti questi problemi.» tentati la carta del rimorso, per quello che valeva, almeno avevo una leva sulla quale fare pressione.

“Datemi una leva e vi solleverò il mondo.” diceva un tale, fomentato, che però aveva ragione su una cosa; il mondo è una persona, e questa rappresenta in buona sostanza il suo universo, perciò datemi una leva e ne diventerò il padrone. Era logica, e psicologia spicciola, di quelle che nei bar impari a capire e a far tua. Siamo governati da meccanismi invisibili, e nel giro di una sigaretta riuscì alla fine ad ottenere la mia informazione. Pertanto congedai la sempre affabile madame Jenevé, sicuro che l’avrei rivista, e poi uscì da quel palazzo.

Il sole era ormai alto nel cielo, i suoi raggi inondavano il genere umano sperando, qualcuno, di bruciarlo. Mi chiesi del come l’astro non si stufasse di guardar giù, forse non poteva sapere cosa significasse essere uomo, come noi non potevamo sapere cosa significasse essere una formica. Ci limitavamo, guardavamo tutto dall’altro e ne traevamo conclusioni, anche azzardate. Little John non abitava lontano da dove ero uscito, perciò ci andai subito. In quel momento realizzai che forse avrei potuto anche infischiarmene, e che avesse ucciso chi più gli piaceva in mezzo a tutto quel caos, semmai lo avesse fatto sul serio. Le constatazioni erano a zero, raggiunsi il solito palazzo grigio. La nostra città era un unico panorama perpetuo, sempre le stesse costruzioni ad ogni angolo, in ogni via. Suonai. «Chi è?» «Sono io amico, Zack… Quello dell’Harvey.» «E che cosa vuoi?» «Parlarti. Magari se mi fai salire…» «No, non posso. Scendo io.» «Come vuoi.» poggiai la schiena al muro ed aspettai. Davanti a me una povera, in cerca d’elemosina, una scena che si vedeva spesso, chissà quanto sarebbe durata prima che la polizia l’avesse bloccata. Di media non guardavano in faccia a nessuno, pestavano chi professava la povertà, e questo avveniva lontano da sguardi indiscreti, il principio dell’occhio che non vede ed il cuore che non duole. Dopo un po’, scese. Mi trovò poggiato, mi guardò e disse «Allora amico, che c’è?», voltai a mia volta lo sguardo, «Possiamo fare due passi o hai il latte sul fuoco?» «Sì, dai, possiamo.» mi rispose, e qualche secondo dopo eravamo a passeggiare.

«Sai, mi è successa una cosa strana ultimamente.» «E cioè?» «E cioè che non posso dirti chi, ma sono venuto a conoscenza di tue cose.» si bloccò un secondo, poi riprese a camminare.

«Ho saputo di come ti diverti la sera, esattamente.» continuai, la sua sudorazione si fece acre e pungente, forte e copiosa, «Amico, ma è solo divertimento innocente, cosa vuoi che sia.» lo interruppi. «Perché, solo questo voglio capire.» a quella domanda mi fermai, guardandolo negli occhi intensamente, tanto che avrei domato un bufalo. «Non lo so, io, non lo so.» era palese il suo imbarazzo, il balbettamento delle parole e la possibilità che mi avrebbe dato addosso. Quando ti senti schiacciato attacchi, c’è poco da fare.

«Amico, non voglio criticarti…» lo rassicurai, «…voglio solo capire.» terminai poggiandogli una mano sulla spalla. A chi volevo prendere in giro, non c’era molto da capire sull’attrazione, perché in fondo questo è il concetto di base. E al piccolo John attraevano i bambini, o quelli che giudicavamo tali, in molti combattevano per capire e decidere dove finisse il concetto di “bimbo” e cominciasse quello di “adulto”. A mio modesto avviso era la capacità di non farsi fregare, lì si diventa adulti, quando non si crede più alle fate e il cielo scuro ti comunica che è meglio rimanere a casa per la pioggia. Quando capisci che puoi scegliere ma, soprattutto, ipotizzi le strade verso le quali le scelte stesse ti portano. Lì sei grande.

È un fatto di testa, di attitudine. Lo era per il piccolo John e per me. «Non so perché amico, che c’è da spiegare?» mi disse contrariato, fu scontata come reazione davanti ad un qualcosa del quale non si può argomentare. Perciò guardai il cielo che ci copriva in quella mattinata. «Non sono andato a lavorare stamattina.» «Come mai?» «Sono ancora leggermente brillo. Era da tempo che non mi sbronzavo.» dissi, cercando anche un minimo di compassione per la stronzata che avevo perpetrato, la ricevetti un minimo. «Capisco amico, mi dispiace…» nessuno lo dice mai con serietà, a nessuno dispiace mai sul serio, è circostanza e aiuta a dire qualcosa quando la conversazione prende una piega aspettata, c’è sempre il rischio che dopo però ti possa venir snocciolato un intero problema esistenziale. Evitai di raccontare.

Accompagnai nuovamente John a casa, lo lasciai con la promessa che avrei tenuto per me le informazioni, e l’assicurazione che nessun altro ne era a conoscenza. Poi ripresi a camminare, passeggiai, e verso pranzo avevo deciso.

Deciso chi uccidere.

Fu piuttosto semplice, elementare che dopo provai come un senso di liberazione per aver adempito alla scelta, essere stato io a decidere, e non mi sorpresi quando accadde davvero, quando effettivamente mi trovai la notizia. Che poi l’avrei saputa subito, da detective.

Ma prima voglio parlare, piuttosto che andare avanti col racconto, voglio dire a mia discolpa che ero giovane, che non capivo, che non comprendevo, e che forse, non ascoltavo. Ora come ora non avrei fatto quel passo, o forse, ci avrei pensato di più, o ancora, avrei lasciato libera una via. Sì, ora avrei lasciato carta bianca all’assassino, che poi magari così si sarebbe sentito anche più “importante”. La verità è che la mattina seguente andai a lavoro con calma e sangue freddo, ero certo che avrei preso una sgridata dal mio capo, e così fu, ma ormai mi conosceva e sapeva cosa c’era sotto, l’alcolismo porta agli errori.

Fui felice, la mattina in pieno orario mi trovai quello splendido ragazzo a guardarmi sorridente. «Cominciamo?» mi disse, risposi di seguirmi. Lo scrutai, e lo lasciai al suo lavoro d’ufficio consapevole che di lì a poco lo avrei portato con me per un’indagine, quella mi avrebbe dato anche la possibilità di capire con chi io avevo a che fare.

Le cose tra me e lui scorrevano bene, in assenza di colleghi lanciavo delle battutine, delle frecciate. Cose che, delle volte, suonavano come proposte. «Che caldo qui dentro, quanto vorrei star nudo e poter girare liberamente!», a questi miei colpi Brandon si limitava a sorridere, e a guardarmi, ma ero certo come un topo in un negozio di formaggio che pensava anche lui le stesse cose, o che era portato a pensarle spinto dalle mie parole.

Sempre la solita psicologia spicciola, e talvolta inversa, che invade le nostre vite; ogni volta che parli di qualcosa spingi l’altro a rifletterci, poi se si crea un dramma esistenziale il problema è il suo.

«Zack, andiamo!» sentii queste parole dall’ispettore Hewer che, lentamente per lo zoppicare, stava venendomi incontro. Sì voltò una volta affacciatosi nell’ufficio, «E portati anche il ragazzo.», risposi affermativamente e dissi al biondo di smettere con gli incartamenti, poi ci avviammo. Tutta questa frenesia era sintomo sicuro di un omicidio. Un caso che avrebbe fruttato, se non altro, una giornata diversa.

In breve fummo sulla 30esima, un posto che avevo visitato già il giorno prima, sapevo orientarmi, ed avevo deciso che sarebbe stato il piccolo John a pagare per la mia nottata alcolica. Seppi dirigermi bene, quasi spinto dalla troppa foga, e mi resi conto di un qualcosa che mai mi era capitato; avevo come un brivido se pensavo ad una ipotetica scena del crimine, come una sorta di paura primordiale per la quale salimmo le scale.

«Brandon, giusto?» chiese l’ispettore al ragazzo, l’altro annuì, «Bene, hai mai visto un morto?» «Sì, certo, abbiamo avuto qualche caso; coltelli soprattutto.» «Perfetto, mi hanno detto che lo spettacolo è abbastanza insolito.» e detto questo bussò alla porta, ci aprì una guardia, si presentò come una recluta e ci fece passare. Le reclute venivano spesso indirizzate alle porte, a far da guardia, in realtà da uscieri. Ora, potevo guardare la casa di colui che, silenzioso, avevo fatto uccidere. Era certo, il corpo lasciava poco spazio alla fantasia, lì c’era il piccolo John, nell’ingresso, supino e irrigidito. Lo sguardo impietrito come se avesse visto la morte in faccia, in fondo, era proprio questo quel che era accaduto.

Da un primo esame, le reclute parlano sempre troppo, nessun segno di arma da taglio o corpo contundente; forse un infarto, pensai, neanche troppo sottovoce. «Lo credo anche io, sicuramente un malanno improvviso od un enorme spavento.» argomentò, l’ispettore, che poi si rivolse al terzo, «Te, cosa ne dici Brandon?» «Credo che, secondo me, se non ci sono prove evidenti di colluttazione, dovremo guardare intorno. Magari s’è trattato solo di un malanno.» rispose. In effetti, come dargli torto? Nessun colpo; chi ha ucciso chi?

Quel che mancava, agli occhi di tutti, era la prova stessa che si trattasse di un omicidio, ed in realtà venimmo a sapere che la polizia fu chiamata principalmente per delle foto trovate nella camera da letto. Sembrava che John non nascondesse il materiale, anzi, lo avesse lasciato in bella vista sul mobile nella camera da letto. Ma in breve; la casa era composta da un ingresso dove al momento, con un topo nella trappola, c’era il piccolo nel regno della mietitrice. Una piccola cucina, un bagno ed una camera da letto; tutto adatto a chi condivideva la sua vita con se stesso e nessun altro. Pensai, guardando quel luogo, che forse feci la scelta giusta. Quell’uomo sarebbe stato dimenticato in fretta dai conoscenti, e forse dagli amici e dai parenti. Dentro di me pensai d’aver imboccato la giusta via. E come un lampo di genio capii che chiunque avesse scritto quei foglietti, chiunque mi volesse aiutare a capire questo mondo evidentemente non scherzava.

Non che pensavo scherzasse, ora però ne avevo palese la prova davanti agli occhi. «Perciò tra le mani, morto, abbiamo uno schifoso pedofilo!» le parole dell’ispettore mi fecero trasalire dalla melma dei pensieri, tornai alla realtà con la recluta che annuiva, «E allora tanto meglio, questa feccia dovrebbe sparire del tutto.» poi, come per un attacco d’ansia, sbuffò. Mi avvicinai, «Ma almeno abbiamo un nome?» «Derald John.» rispose il giovane poliziotto. «Bene, è una buona cosa partire dal nome, no?» chiese Brandon, confermai. Il nome mi avrebbe detto poco, il nome dice sempre poco. Più che altro è a quello che si lega il concetto di identità, ho sempre pensato che l’essere si potesse annullare declinando il nome, era questo il più grande scoglio che non mi permetteva di capire le persone transessuali. Come essere una gatto e venir chiamato “cane”.

«Va bene, sistemate tutto e portateci ogni informazione possibile, poi fate una visita per vedere se è stato un infarto.» concluse l’ispettore avviandosi alla porta d’uscita, «Ho visto abbastanza.» rispose uscendo dalla porta. Io rimasi ancora a guardare il corpo, la faccia mi colpì con i suoi occhi spalancati come per la visione di un mostro, quasi come una folgorazione. L’intuizione della fine e il raggiungimento della motivazione.

«Non deve essere stato bello, comunque sia.» disse Brandon che, nel frattempo s’era accostato, forse incuriosito dal mio voler rimanere a guardare. Presi una sigaretta e l’accesi, «Sicuramente. Ti ricordi di lui?» chiesi, «Sì, non era il tizio dell’Harvey?» «Già.» «E a pensare che l’avevamo visto pochi giorni fa.» «Be’, ma hai capito quel che faceva?» chiesi io fumando, volli essere sicuro che avesse compreso, capito la mia direzione. «Certo, era quel che era.» poi aggiunse, «Ma chi di noi non ha dei segreti?», se ne andò voltandosi, lasciandomi lì a fumare; mio caro John, colpa mia, sarà per la prossima volta.

Pensai.

Quella sera, tuttavia, riuscii a convincere il biondo ad uscire un po’, qualcosa fuori dal classico locale ghettizzante, in realtà il ghetto stesso eravamo noi più che la società, o almeno a me piaceva pensarla così. Ovunque mi girassi, in qualsiasi posto io guardassi, vedevo chiusura ed odio, ma più che altro notavo paura. Riuscii nello sforzo di non bere, mi sentii pronto e desiderabile, misi uno di quei vestiti buoni ma classici e mi diressi all’incrocio preposto per l’incontro. Camminai per bene, senza andare né troppo a sinistra né a destra, ovviamente fui intenzionato da principio a mandare l’incontro verso la conclusione che mi venne promessa giorni prima, ripeto che era quello ciò che muoveva il nostro, ed il mio mondo. Almeno si cercava di sopperire agli istinti animali, se non era possibile soddisfare quelli dell’animo. Girovagai per le strade, notai il solito caos per la serata; bicchieri, bottiglie, e tutto il resto. Coppiette appartate, o meno, alla luce della sera come fosse un grande paravento. L’altra faccia della medaglia, la mattina lavoro e chiesa mentre la sera alcool e divertimento. Lo trovai all’incrocio che si guardava in giro aspettandosi io non fossi arrivato, poi mentre m’avvicinai a lui mi vide, sorrise.

«Finalmente, eccoci.» «Credevi ti avessi dato buca?» «No, cioè, ero sicuro saresti arrivato.» disse per giustificarsi. Accennai un sorriso, poi accesi una sigaretta, era consapevole fumassi e non chiesi nulla. Il clima era stabilmente fresco, avevo addosso una camicia grigio scuro, lui una cosa più informale, una maglia arancio. Cominciammo a camminare.

«E allora, ti trovi bene a lavoro?» «Sì, devo dire che sei valido come tutore.» «Figurati, sono solo incartamenti.» l’imbarazzo iniziale cominciò a sparire poco dopo, intorno a noi non c’era quasi nessuno, desolazione cittadina. Il luogo d’incontro era un po’ isolato, a dire la verità, scelto strategicamente. Le possibilità di incontrare pazzi e alcolisti basse, quando sai di ciò che parli, conosci anche il nemico. «E quindi ti sei spostato dal Greenshire alla città, starai con i tuoi.» «Ma no, sono partito solo, sto con dei coinquilini.» «Capisco. Per stasera non ho preparato molti programmi, veramente non so se vuoi mangiare fuori o cos’altro.» dissi. Era palese si aspettasse un percorso programmato ma, come sempre, io avevo dimenticato le bandierine di segnalazione. «Per me va bene qualsiasi cosa.» rispose, ci misi un po’ a riflettere anche se fu tutta una finta, in realtà la risposta mi venne come fulminea. «E se venissi da me e cucinassi? Ti assicuro che me la cavo.» conclusi, annuì, e quindi feci strada verso la mia alcova. Passammo su strade certamente più affollate, questo non significò nulla e non avrebbe dovuto farlo, anche se vedere due ragazzi insieme di cui uno con dei lineamenti delicati o stereotipati portò alle giuste conclusioni, la gente era come schifata da ciò, le coppiette smettevano di baciarsi e guardavano male come ad indicare a noi fuori natura di tornare nei nostri oscuri nidi.

I cosiddetti “consigli d’amico”.

«E senti, ma per domani, domani, ci sono i responsi del medico legale che dovrebbero arrivare.» «Ah, quelli, in realtà vedrai che ci vorrà più tempo del previsto.» cominciò a parlarmi del caso mattutino, io volli stroncare quella comunicazione sul nascere per evitare ciò che, dopotutto, m’ero aspettato; si parla di lavoro e non si parla d’altro. «È solo che mi ha colpito vedere quel tizio, l’avevo visto poche ore prima.» disse mentre ormai eravamo giunti davanti al portone di casa, come al solito le chiavi, il giro, il cigolio. Ogni cosa fu ottimale come ogni volta. Aprii la porta e accesi la luce.

Un foglio si trovava al centro della stanza, completamente sistemata, andai a raccoglierlo. «Dev’essere caduto.» mentii, raccogliendolo e togliendolo di mezzo, non potei leggerlo ma lo tenni da conto. Feci strada, e misi il ragazzo nella sala adiacente; una cucina abitabile, quindi con un tavolino dove mangiare, scarna al punto giusto per uno che viveva solo. «Allora, hai preferenze? Qui abbiamo riso, riso e fammi vedere…» «Riso?» disse, risi, «No, ravioli.» vero, non c’era poi molto, a casa mia non c’è mai stato tanto da mangiare visto che talvolta gli unici ad usufruirne erano i topi. Proposi e accettò, mi misi a cucinare con i movimenti giusti, passammo una bella serata.

 

 

 

Ovviamente quando aggiungerò i testi metterò i miei pensieri sotto spoiler.

La colonna sonora per questo pezzo è la citata "Stardust" di "John Coltrane".

 

Che dire di questo primo capitolo; è pur sempre un testo breve, non pretende di essere serio e non è scritto da uno scrittore professionista. Ma più "Just for fun", paradossalmente non è il mio primo esperimento con testi più lunghi, chi si ricorda il malriuscito "Spaghetti rhapsody"? Che potrei riprendere forse, come concezione. L'idea non è mai stata accantonata.

Tuttavia è senza dubbio il più riuscito, speriamo :-D

 

 

Link to comment
Share on other sites

  • 2 weeks later...

Capitolo secondo - Approcci rapidi a piccoli problemi.

 

 

Tempo al tempo, mi svegliai. Aprii gli occhi e come sempre imprecai, nella mia mente, ripetendo il salmo ben dodici volte. Poi mi alzai. Dio sembrava non amarmi, e quindi perché io avrei dovuto amare lui? Cani. Tutti, cani. Diedi un rapido sguardo al buio, la camera era in ordine ed il letto occupato, quel biondo ai miei occhi era stata la più dolce delle puttane, di certo non m’aspettai ciò e dovetti ammetterlo, come prima volta fu bravo. Ancora in mutande lo lasciai dormire e mi diressi verso il balcone.

Il giorno prima, o la settimana prima, che dir si voglia, un mio conoscente era morto. Paradossalmente neanche ci tenni più di tanto al fatto di rimarcarne la conoscenza. Ero ancora certo d’aver fatto la scelta giusta, e se qualcuno s’era sporcato le mani al posto mio perché non lasciarlo fare. Dai alla gente ciò che vuole, e vedi che saranno tutti contenti, anche questa è filosofia spicciola.

Mi accesi una sigaretta, il fumo mi dava il buongiorno mentre fuori cominciava ad albeggiare. Solo allora mi ricordai d’aver messo da parte il foglio che trovai la sera prima, lo andai a prendere e lo guardai, stavolta era un foglio piccolo, strappato come se chi l’avesse scritto non avesse avuto altra carta. Una penna e poco più. Lessi;

 

Sarah Gellar, 56esima, 3° palazzo da destra, pianterreno.

 

Nessun messaggio, nessuna spiegazione, nessuna sicurezza sul mio aver fatto bene o, perché no, l’aver fatto male. L’importante, mi dissi, era esserne sicuri.

Chiunque scriveva voleva io trovassi quella donna, non sapevo il motivo e neanche lo sospettai, ma sapevo per certo che dovevo andarci. Misi via l’indirizzo, mi organizzai, e tornai in camera senza aver bevuto, il mal di testa cominciò a farsi sentire. Mi sedetti sul letto dove Brandon dormiva, e mi decisi a svegliarlo, saremo dovuti andare a lavorare, lentamente gli misi una mano sulla spalla destra.

«Ehi, ehi, sveglia.» dissi, lui aprì gli occhi lentamente sbattendoli qualche volta, poi si stiracchiò e mi diede il buongiorno. Pensai a quanto potesse essere un risveglio del cazzo, noioso, troppo perfetto e tendenzialmente smielato. Quel che al ragazzo mancava era, sicuramente, il saper distinguere tra del semplice sesso ed un amore, anche se l’amore talvolta è comandato dal sesso.

«Dai, alzati che dobbiamo andare.» dissi sorridendo, «Sì.» «Ti va del caffè?» «Certo.» gli chiesi mentre si vestiva, lo guardai e pensai che davvero fosse stata la serata giusta. Se non altro mi svuotai, e questo era quanto di più rilevante nel momento. Inutile parlarne, la nostra vita e la nostra esistenza sono contagiate dal sesso, e mi va bene sia così, scopare il più possibile per non avere rimpianti da vecchio. Finché non ne capisci qualcosa, e mai è detto che ne capirai, la vita è solo un tentare di risparmiarsi rimpianti nel caos.

Uscimmo di casa e arrivammo alla stazione di polizia insieme, ormai eravamo anche colleghi per il caso del piccolo John, inutile obiettarlo. «Senti.» mi disse poco prima di entrare, ottenne la mia attenzione.

«Ecco, per ieri sera.» «Non t’è piaciuto?» «No, no. Non è questo.» «E allora, cos’è?» chiesi. Sapevo già dove sarebbe andato a parare, relazioni nascono da una serata a letto, forse, non mi sarei tirato indietro. O almeno pensavo ciò, come si suppone che uno davanti ad una rissa non stia con le mani in mano, poi arriva il momento che capita, ed è lì che ti crollano le convinzioni. Pensavo avrei accettato una relazione, sicuramente però non l’avrei fatto.

«Solo che, sono stato bene. Tutto qui.» disse per poi entrare. Avrei desiderato una bella sigaretta, ma l’avrei accesa nel mio ufficio per via di tante cose ma principalmente per il divieto di fumo negli spazi condivisi. Entrai anch’io. Ad aspettarci, scanzonato e scazzato come una tagliola, l’ispettore Hewer. «Ragazzi, ci sono novità.» disse, illustrandoci poi che dai rilievi nella casa era stato rinvenuto un diario appartenente alla vittima. Era una cosa che m’incuriosì, ci venne detto che sarebbe stato analizzato, trascritto, com’è che si fa in questi casi insomma. Ci sarebbero voluti dei giorni prima d’avere qualcosa di leggibile. Tuttavia ci ritrovammo a parlarne con altri colleghi, e ne risultò che almeno io e Brandon ne avremmo ottenuto una copia il prima possibile. Del resto a noi s’era deciso di lasciare l’indagine che poi, tanto indagine non era, ma comunque ribadisco che eravamo i detective.

Questo forse accelerò le cose tra me e quel ragazzo, il fatto di trovarsi sempre uno vicino all’altro per il lavoro portò lui a prendere parte delle mie abitudini, e a me con tanta fatica permise di smettere con l’alcool. Ma allora bevevo ancora, e già il fatto d’aver volutamente lasciato il bicchiere mattutino mi mandava su tutte le furie.

La giornata si svolse come pensavo, tra una controllatina, una visita alla scena del crimine, un sopralluogo e svariati “come dobbiamo agire?” e “Ora che cazzo ci inventiamo?”. Eppure ero certo qualcosa sarebbe successo il giorno dopo, avevo deciso di prendermi ben mezza giornata di permesso per andare nella 56esima e seguire la mente di quel pazzoide che sembrava starmi alle calcagna. Notai da subito che non arrivavano biglietti se non rispondevo né tantomeno finché non avessi completato la “missione”. Come se fossi io a scegliere di avere legami con lui, e non lui con me.

Il momento arrivò in fretta, quella sera Brandon non dormì con me e lo trovai al lavoro il giorno dopo. Arrivato il momento giusto congedai tutti e fui in strada, pronto a dirigermi dove dovevo con lo scopo che avevo; nessuno. La curiosità di capire e, forse, il voler vedere qualcosa di nuovo, mi trascinarono dritto alla meta.

La 56esima strada era molto distante dalla mia abitazione, un po’ meno dalla stazione di polizia, ed era come al solito quasi una strada anonima se non per qualche cartello e qualche insegna. Una frutteria, un droghiere, macellaio e beni di prima necessita, come un bar. Mai lasciare un uomo con la gola secca. Il palazzo non fu difficile da trovare, perciò ne approfittai per bere qualcosa prima. E mentre il ghiaccio si scioglieva nel bicchiere pensai al come presentarmi alla donna; non la conoscevo, non l’avevo mai vista e non gli avevo mai rivolto parola. Uscii dal bar e andai verso il palazzo, cercai il nome sul citofono, significava l’aver deciso per l’attacco frontale.

Citofonai, non mi rispose nessuno.

Fu triste, desolante e non me ne fregò quasi niente, avevo messo in conto l’ipotesi e decisi di tornarmene indietro. Un po’ sconsolato vidi una signora con due buste nelle mani, era evidente che pesassero troppo per lei; tarchiata, seno calante, protratta leggermente oltre la metà ipotetica della vita. Per i miei occhi; inguardabile. Tuttavia per senso civico, mi avvicinai, «Le do una mano signora, aspetti.» e tesi un braccio verso le buste, la donna mi squadrò ma dopo qualche secondo si autoconvinse.

«Grazie giovanotto, abito vicinissimo.» «Ma si figuri.» risposi camminando, piede dopo piede seguendo l’andatura un po’ altalenante della donna. Non mi disse niente, e paradossalmente ci fermammo davanti al mostro di cemento dove poco fa avevo citofonato, casi della vita che mi sembrò come tornare indietro nel tempo. Estrasse le chiavi, aprì il portone, e feci per lasciare la busta come a dire che avevo concluso il mio compito quando mi disse che era arrivata, visto che abitava al pianterreno.

La vita e le casualità, non mi stancherò mai di notare quante esse possano sembrare tutto tranne quel che sono. Eppure non dovrei sorprendermi, la merda è merda, il culo è culo, e il caos è l’unica cosa che regna e comanda le vite. È il principio della vita stessa, un caos ordinato.

«Signora Gellar?» «Io? No. Sono la vicina, la signora Gellar la troverà sicuramente nel tardo pomeriggio, almeno di media.»

Sì, la merda era la merda.

Salutai e congedai la donna, ringraziandola abbastanza da fargli capire che non ero un malintenzionato. Da lì al tardo pomeriggio mancavano poche ore, decisi quindi di far due passi, trovare una panchina e sedermi.

Aspettai.

La seconda volta tornai lì quasi a colpo sicuro, inforcai la strada, osservai il palazzo traendone le stesse conclusioni di qualche ora prima, e citofonai.

«Sì?» «La signora Gellar?» «Sì, chi è?» «Dovrei parlarle.» «Non so chi è però!» «Detective Zack dela Crois, signora.» «La polizia?! Oh mamma. Io… Io non ho fatto niente…» «Signora, non sono qui per questo, se mi apre ne parliamo, o se esce lei.» cercai in linea teorica di rabbonirla alla convinzione che un detective volesse parlarle, in tutti i modi possibili, ma ottenni solo uno spavento ed una stizza nei confronti della polizia, tentai quindi l’unica ed ultima arma a mia disposizione.

«Signora, ero un amico di John.» dissi, e contai fino a dieci, poi non ottenni risposta per altri venti secondi e d’improvviso “click!” il portone s’aprì. Entrai e mi trovai di fronte ad un paio di porte, e le scale. Una era chiusa, una no, e quest’ultima era retta da una donna snella, segnata dal tempo, capelli lunghi castani con le lacrime agli occhi.

«In che senso “ero”?» mi chiese senza farmi fiatare, mi avvicinai a lei, «Se mi fa entrare, sedere, e si calma, gli spiegherò tutto quanto.» e la donna mi aprì le porte della sua casa. Un salone scarno; un tavolino, un mobile e tre sedie, un corridoio ed una saletta sulla destra che sembrava a prim’occhio una cucina. Troppo sobrio, poco elegante, decisamente minimalista. Mi sedetti, guardai intorno, mi offrì qualcosa da bere, del tè.

«Signora.» dissi tenendo la tazza tra le mani, lei non rispose, tuttavia si sedette vicino a me e si preparò ad ascoltare.

«Io sono un detective. Seguo il caso di John, e non dovrei essere io a dirglielo…» gli occhi le divennero lucidi e brillanti più delle stelle, «… ma se sono qui significa che non è più tra noi.» e detto questo, pianse. «Si calmi, si calmi.» cercai di rabbonirla, ma l’unica cosa che potetti fare fu offrirgli una spalla ed attendere.

Dopo un po’ prese fiato, e continuai.

«Io non so cosa lei c’entrasse con lui, ed è per questo che sono qui, per chiarire la sua posizione.» dissi per far intendere che io sapevo del suo legame con il piccolo, era palese come “colui che mi scriveva i bigliettini” m’avesse avvertito di ciò, farmi intendere un legame interessato. Pertanto la donna prese coraggio e mi parlò singhiozzando.

«John era un bravo ragazzo, veniva spesso qui almeno… almeno una volta a settimana.» mi disse mentre m’accesi una sigaretta, «E per quale motivo, signora?» «Per molte cose, vede, tempo fa perdetti mio figlio…» rispose, capii che la storia era più lunga di ciò che pensavo, mi preparai al resoconto estraendo un taccuino ed una penna dal taschino interno della giacca.

«Non le dispiace se prendo appunti, vero? Sa, il mestiere…» rispose facendo un cenno di consenso con la testa, cominciai a scrivere. Gli schemi mi sarebbero serviti semmai avessi dovuto ricordarmi delle cose, e anche per un resoconto ordinato; volevo capire, prima d’arrivare, dove il misterioso traghettatore avesse voluto trascinarmi. Quale limbo avrei affrontato e quando si sarebbe palesata una nuova scelta.

«Del tempo fa, due anni fa…» la storia era questa; un paio d’anni prima il figlio della donna, Daniel di sette anni, fu investito da un mezzo privato. In definitiva il primo soccorso glielo diede proprio il piccolo John, che li si trovava giusto a passare dal mercato dove aveva fatto la spesa. Non si trovò mai il conducente, nessuno poté denunciare chi altri, solo lei e quel bambino morto tra la folla, piccolo e con le ossa spezzate dal peso del trabiccolo. Non ci fu nulla da fare, la tristezza mi prese ed il nervosismo mi portò a fumare in totale altre sette sigarette, una per ogni anno che Daniel aveva.

Il primo, vissuto felicemente con la madre, come tanti altri ragazzini. La notte trattare un bimbo piccolo è sempre difficile, non c’è bisogno di molto se non di tanta pazienza, forse troppa, che non tutti hanno. I rigurgiti, ogni minimo sospiro che è un avvertimento e le corse dal medico, un bambino non è uno scherzo.

Il secondo anno erano meno problemi, e ci si impara a convivere, diventa più gestibile e Daniel a due anni camminava, ogni tanto ruzzolava, si divertiva e giocava con i suoi giocattoli; di legno, colorati, tutti belli e carini.

Il terzo anno Daniel diceva le sue prime parole, come “mamma”, “balcone”, “cane” e “tazza”, non diceva “papà”, la donna rimase in cinta e il padre non riconobbe il bimbo. Questo non si vide più in giro, e forse non se ne seppe più nulla nemmeno negli archivi della polizia.

Il quarto anno il bimbo giocava, cresceva e così fino al suo ultimo anno. Venni a conoscenza delle sue esperienze, delle sue frasi più divertenti, dei suoi comportanti e, dentro di me, pensai: Chi cazzo me l’ha fatto fare. Sette sigarette come il fumo dei sogni di una madre, tutto tornò alla mercé della “dovizia dei particolari” quando entrò in scena l’incidente e Little John.

Questi aveva aiutato la donna, parlando, consolandola, facendosi presente tanto che lei s’affezionò ad averlo spesso in casa. E lui l’aiutava con la spesa, il mantenersi, e tante piccole accortezze.

In definitiva qui il tipo faceva il bravo, come un topo in mezzo ad un circondario di gatti, restava nel suo e non strafaceva mai oltre le sue possibilità. Perciò pensai che tutto questo potesse bastarmi, non avrei retto ancora per molto.

«Signora, potrebbe rimanere disponibile?» «Certamente.» mi rispose, poi la congedai ed uscì fuori dal palazzo, il cielo aveva cominciato a scurirsi, quella sera avrei rivisto Brandon e tanto mi bastò per consolarmi.

Le cose con lui andavano bene, e più lo frequentavo più capivo che prima o poi avrei messo in dubbio le mie convinzioni sul mondo, o almeno sul mio mondo.

Soprattutto quando mi ritrovai in un letto d’ospedale, con lui che mi sedeva accanto; aprii gli occhi e vidi il soffitto bianco. Come ci arrivai?

Come tanti, per strada, picchiato perché frocio. Né più né meno, come tanti che pensavo mai mi sarebbe capitato.

Quella sera, dicevo, incontrai il biondo come la volta precedente. Mi sorrise, mi guardò, e io ricambiai altrettanto; ero contento, fuso per la giornata ricca di informazioni e con un sentimento come di dubbio verso le mie scelte, sostanzialmente felice.

«Ciao!» «Ciao.» risposi sorridendo, vestii carino per l’occasione; per quanto pantalone e camicia potesse essere carino quando viene indossato tutti i giorni.

«Come è andata oggi, alla fine? Purtroppo sono dovuto scappare…» dissi accendendo l’ennesima sigaretta, la voglia di bere era enorme ed ero sicuro avrei ceduto quella sera. Attorno a noi le strade, ed i vicoli, e per quest’ultimi le case con i gruppi di ragazzi, la gente che dormiva, chi sperava quella merdaccia di mondo finisse, e chi faceva l’amore.

«Diciamo che è andata bene.» «Diciamo?» «Sì, dai, è andata bene.» notai come cominciavamo a parlare di cose personali, ovvie; Brandon veniva dal Greenshire, mi parlò della sua famiglia e della figura fantastica di “Nonno Joe”; un vispo vecchietto combattuto tra il bersi un bicchiere di vino a pranzo e il cercare di trovare delle massime per condensare la sua esperienza nella realtà. In una parola, un mito.

Venni a sapere che nessuno, nella sua famiglia, sapeva di lui. Questo era un fatto comune, tralasciando chi come me con i parenti ci aveva tagliato ogni rapporto. Il non scoprirsi o il non farsi scoprire, quello che si chiamava “Coming out”, uscire fuori allo scoperto, fuori dall’armadio, fuori dal nulla per vivere alla luce del giorno. Un passo che non tutti facevano, come me e Brandon non avevamo fatto.

Scoprirsi con la società poi era quasi praticamente impossibile, e le implicazioni che avrebbe portato ti facevano pensare alla cosa per almeno una decina di volte. Chi si dichiarava col mondo spesso era costretto dai suoi modi di fare e dalle sue attitudini, del tipo; se non vedevano era perché volevano non vedere.

La gente vuole sempre non vedere, e il nostro errore fu continuare a passeggiare senza meta, piuttosto che rinchiuderci in un luogo sicuro, o perlomeno chiuso. Che se ci fossimo chiusi sicuramente avremo scopato, carne nella carne e senso nel senso, queste sono chiacchiere per intellettuali.

«L’altra sera, sai, ho pensato all’altra sera.» mi spiazzò, «Davvero? E cosa hai pensato?» chiesi mentre fumavo. «A noi, ecco, le cose vanno bene e al lavoro siamo affiatati, affini…» «Sì, ho notato.» «E perché non potremo essere anche una coppia nella vita reale?».

Non sapevo cosa rispondergli, mai avevo preso in considerazione di fidanzarmi, in totale qualche storia l’avevo avuta. Credo comunque sia stato questo il momento in cui ci sentirono, e capirono di noi. Ma forse fantastico.

Dicevo, mai avevo preso in considerazione l’idea di una storia, ci pensai su, poi risposi che per me si poteva anche fare; mal che vada sarebbe durata poco, come tutte le altre. Detto questo mi baciò a stampo, istintivamente, neanche si curò di vedere chi ci fosse stato intorno.

Pessima azione.

Finita la dolce chiacchierata lo accompagnai a casa e poco dopo mi trovai davanti tre tipi, energumeni grossi.

Tra questi uno colpì la mia attenzione, per via di una maschera sul volto. «Brutto frocio!» «Invertito di merda!» poi non capii più nulla e mi trovai dov’ero; letto freddo, stanza bianca e vicini rumorosi. Un ambiente sterile, semplice e asettico.

E quel biondo accanto quando aprii gli occhi.

«Oh, Zack!» disse vedendomi svegliare, non risposi, il corpo dolorante come se avessi avuto un frontale con un carro. Mi limitai a guardarlo, aveva saputo fossi lì.

E pensai a ciò che ricordavo, alla signora, al figlio morto e a Little John che forse avevo mandato a morire senza conoscerlo. Pensai ai messaggi, e che forse sarebbe morto un innocente fancazzista e perdigiorno, insomma, un essere inutile alla società; in ogni senso la si rigiri.

Valutando i pro ed i contro capii che forse non era proprio il caso di allarmarsi troppo, visto che a tutti capita di fare del bene e del male, magari il piccolo aveva sporadicamente fatto del bene nella sua vita. E questo faceva sì sembrare che lui lo avesse fatto per ogni giorno, in fondo in un ospedale non ti rimane altro che riflettere specialmente se sei imbottito di farmaci.

Ma fui consapevole, e di certo sicuro, che mi sarei rimesso.

E così fu. Deciso col cuore, e pieno di fiori da parte di Brandon, dell’ispettore, e anche del mio compagno d’ufficio.

Tutto prendeva la giusta piega, finché non tornai a casa.

 

 

 

La traccia per questo capitolo è "In a sentimental mood" di John Coltrane, sto stuprando Coltrane.

Cosa dire, uno o due altri capitoli e ci dovremo essere :-D

 

 

Link to comment
Share on other sites

Join the conversation

You can post now and register later. If you have an account, sign in now to post with your account.

Guest
Unfortunately, your content contains terms that we do not allow. Please edit your content to remove the highlighted words below.
Reply to this topic...

×   Pasted as rich text.   Paste as plain text instead

  Only 75 emoji are allowed.

×   Your link has been automatically embedded.   Display as a link instead

×   Your previous content has been restored.   Clear editor

×   You cannot paste images directly. Upload or insert images from URL.

×
×
  • Create New...