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Io non ho avuto un padre (dal punto di vista psicologico). Naturalmente, quando si pronuncia una frase del genere, bisogna intendersi: ovvio che ho avuto un padre, che mi ha anche trasmesso delle cose, che ha svolto il suo ruolo in maniera magari insufficiente ma non nulla. Però, dal punto di vista psicologico, non ho avuto un padre, e il mio padre ho dovuto costruirmelo da me. Forse alcune persone importanti nella mia adolescenza hanno ricoperto una funzione paterna, ma non sono bastate (e non potevano bastare) a darmi un padre.

 

Che cosa succede quando non si ha un padre? Credo due cose.

 

La prima, è che sbandi: non hai una direttjva interiore, non hai dei veri muscoli, quindi non hai vere mete da perseguire, e allora non ti decidi per niente, non ti «incarni», puoi essere incerto e insicuro, oppure, anche se ti dai delle mete, puoi avere un'intima sensazione di in-esistenza, o di sfocatezza.

 

La seconda è che reagisci a questa mancanza e il padre interiore te lo costruisci da te, ed è quello che è successo a me: ma... un padre costruito da sé è teorico, cioè indefinito, astratto: ti lascia Soggetto e padrone di tutto, ivi compreso del fatto che sei intimamente privo di quello che solo il padre reale può dare: la «misura», quindi la certezza.

 

Solo chi ha una «misura» ricevuta in dono, trasmessa in modo fisico, per così dire, può - ad esempio - delegare una parte degli eventi e delle azioni a un padre che li valuta, da padre appunto, e ti dice: vabbè, qui puoi aver sbagliato, ma nell'insieme «va bene» - basta, hai fatto bene così, vai bene così. Di qui una notevole fatica del vivere, il cui lato positivo può anche essere una buona capacità di impegnarsi, ma il cui lato negativo è l'incapacità di mettere spontaneamente in opera una funzione di misura la quale fa automaticamente presa sulla realtà, realtà reale e realtà psicologca.

 

Naturalmente altre cose si potrebbero dire, aggiungere, o cercare di tirar fuori.

 

Sarei curioso di sapere se hanno qualcosa da dire persone che sono vicine ai 35 anni o li hanno superati, quindi sono pienamente adulti, quali @Casper@Hinzelmann, @privateuniverse, @conrad65, e altri e altre, ma anche persone che sono al di sotto di questa età e sono impegnati in un lavoro di crescita e di costruzione (io il mio credo di averlo iniziato verso i 16 anni, più compiutamente dopo i 25)

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La prima, è che sbandi: non hai una direttjva interiore, non hai dei veri muscoli, quindi non hai vere mete da perseguire, e allora non ti decidi per niente, non ti «incarni», puoi essere incerto e insicuro, oppure, anche se ti dai delle mete, puoi avere un'intima sensazione di in-esistenza, o di sfocatezza.
non penso che questa sia una motivazione che leghi con la mancanza di un padre :uhsi: 

 


Solo chi ha una «misura» ricevuta in dono, trasmessa in modo fisico, per così dire, può - ad esempio - delegare una parte degli eventi e delle azioni a un padre che li valuta, da padre appunto, e ti dice: vabbè, qui puoi aver sbagliato, ma nell'insieme «va bene» - basta, hai fatto bene così, vai bene così. Di qui una notevole fatica del vivere, il cui lato positivo può anche essere una buona capacità di impegnarsi, ma il cui lato negativo è l'incapacità di mettere spontaneamente in opera una funzione di misura la quale fa automaticamente presa sulla realtà, realtà reale e realtà psicologca.
in pratica la cosa ha inciso sulla tua autostima? o.O

 

la cosa ora che sei adulto ( andato semmai) e che bene o male potresti essere te padre ti fa star male? 

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in pratica la cosa ha inciso sulla tua autostima? o.O

 

la cosa ora che sei adulto ( andato semmai) e che bene o male potresti essere te padre ti fa star male? 

 

1 il problema non è l'autostima ma la «misura» dell'autostima, come di altro. Chi ha avuto un buon padre reale e un buon padre psicologico ha una maggiore capacità di applicare automaticamente, (e in modo concreto, quindi anche umano), la misura dell'autostima, della valutazione di sé e degli altri etc.

 

2 No: ma la vita è più faticosa, proprio perché sono il padre di me stesso.

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cambiapelle

Sarò impopolare ma per me la figura paterna non é fondamentale . E non tutti quelli senza un padre sono insicuri o sbandati. Li dipende dalla forza che uno ha dentro e dalla sua autostima . Vuoi un padre ? Cercalo negli amici ! Io da piccolo ho fatto così.

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Chi ha avuto un buon padre reale e un buon padre psicologico ha una maggiore capacità di applicare automaticamente, (e in modo concreto, quindi anche umano), la misura dell'autostima, della valutazione di sé e degli altri etc.
il problema è che non esiste un padre "ideale" che sappia trasmetterti le cose fondamentali... e poi a dirla tutta in un forum di froci sicuramente la maggior parte dei presenti è legata principalmente alla mamma LoL 

 

dal mio canto non posso dire di avere avuto un padre assente, anzi le liti e le mazzate non sono mai mancate LoL forse questo è quello che mi ha lasciato mio padre la rabbia e l'aggressività :uhsi: a detta tua sarebbero cose positive per l'autostima? :asd:

 


Vuoi un padre ? Cercalo negli amici ! 
che cazzata!
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Isher credi che quello che tu dici sul padre sia applicabile in modo analogo per i maschi e per le femmine, o se in qualche modo l'appartenere allo stesso sesso renda il ruolo del padre più importante, più formativo, per i maschi?

Perchè io, che con mio padre non sono mai andata d'accordo, che non mi conosce quasi per niente, e quindi non ha rivestito il ruolo che tu racconti, non mi sembra di potermi identificare in nessuna delle due categorie, anche se francamente ammetto di non averci forse mai riflettuto veramente. Ho accettato la distanza, l'ho anche subita e per certi versi è ancora così, ho preso il buono che c'era, accettato i limiti di entrambi, evidentemente, anche se io sono la figlia e un certo tipo di "lavoro" , di azione, è sempre inderogabilmente a carico dei genitori...

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Sarò impopolare ma per me la figura paterna non é fondamentale . E non tutti quelli senza un padre sono insicuri o sbandati. Li dipende dalla forza che uno ha dentro e dalla sua autostima . Vuoi un padre ? Cercalo negli amici ! Io da piccolo ho fatto così.

 

Cambiapelle, credo che tu non abbia capito o letto attentamente il mio post. Potrei infatti risponderti che

1 tanto poco credo io stesso che non si possano cercare sostitutivi a un padre, che ritengo che un padre lo si possa addirittura creare da sé stessi

2 il fatto che si trovino sostituti o vicari della funzione paterna, non toglie il fatto che, intanto, uno non lo abbia avuto

 

Isher credi che quello che tu dici sul padre sia applicabile in modo analogo per i maschi e per le femmine, o se in qualche modo l'appartenere allo stesso sesso renda il ruolo del padre più importante, più formativo, per i maschi?

Perchè io, che con mio padre non sono mai andata d'accordo, che non mi conosce quasi per niente, e quindi non ha rivestito il ruolo che tu racconti, non mi sembra di potermi identificare in nessuna delle due categorie, anche se francamente ammetto di non averci forse mai riflettuto veramente. Ho accettato la distanza, l'ho anche subita e per certi versi è ancora così, ho preso il buono che c'era, accettato i limiti di entrambi, evidentemente, anche se io sono la figlia e un certo tipo di "lavoro" , di azione, è sempre inderogabilmente a carico dei genitori...

 

Credo che sia applicabile esattamente a maschi e femmine. Però anche a te dico: il mio è un invito a rflettere, e basta, oppure a parlare di sé, come ho fatto io, e basta.

 

Non si tratta di star bene o di star male: questo secondo punto vorrei che fosse chiaro sin dall'inizio, altrimenti il topic non parte. Magari non partirà comunque, ma il punto non è questo. Dirò di più: se si prende sotto questo aspetto (sto bene lo stesso - non sto male - mi sono trovato sostituti) è evidente che il discorso muore prima ancora di nascere. D'altra parte, io non penso affatto che questo discorso possa o debba interessare tutti  :music:

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privateuniverse

Argomento interessante. Tra l'altro, nel mio caso proprio ieri sarebbe stato il compleanno di mio padre.

 

Che cosa succede quando non si ha un padre? Credo due cose.

 

La prima, è che sbandi: non hai una direttjva interiore, non hai dei veri muscoli, quindi non hai vere mete da perseguire, e allora non ti decidi per niente, non ti «incarni», puoi essere incerto e insicuro, oppure, anche se ti dai delle mete, puoi avere un'intima sensazione di in-esistenza, o di sfocatezza.

 

Sono stato per circa dieci anni molto amico di una persona, un mio coetaneo, che aveva perso il padre all'età di nove anni, in maniera violenta (il padre fu assassinato) e, nel suo caso, avveniva esattamente quel che hai descritto tu. Era uno sbandato, sia nella vita professionale sia in quella personale e affettiva. Sembrava non avere una personalità strutturata, manifestava un vero e proprio rifiuto a ragionare in termini di "giusto" e "sbagliato" in termini anche meramente concettuali e non soltanto pratici, non aveva un vero progetto di vita. Probabilmente la mancanza del padre aveva interagito con alcuni tratti della sua personalità, concorrendo a renderlo la persona che era.

Questi suoi sbandamenti sono stati anche la causa della fine dei nostri rapporti. Nel giro di due mesi, passò dall'invitarmi da lui per Natale al negarsi al telefono, allo scrivermi una mail piena di insulti; e, otto mesi dopo, come se niente fosse, cercò di ricontattarmi, senza peraltro un minimo di scuse. Un comportamento, per l'appunto, da sbandato, che aveva anche con altri, amici e amanti (donne, perché era etero).

 

Devo dire che, in generale, le persone che ho conosciuto e che avevano un padre debole mi hanno sempre dato un po' quest'impressione, di ondeggiare senza una direzione precisa, di seguire soltanto i propri impulsi, di non essere mai in grado di valutare il proprio comportamento nei confronti degli altri e, più in generale, la propria posizione nella vita, in maniera astratta, con uno sforzo di obiettività. O forse, più correttamente, di essere in grado di elaborare un progetto di vita con un minimo di coerenza.

 

Se non sbaglio, secondo la psicanalisi, il padre rappresenta l'autorità e l'amore condizionato; inoltre, non c'è bisogno della psicanalisi per capire che il padre è una figura, al tempo stesso protettiva e temibile, alla quale appoggiarsi e alla quale contrapporsi, e che, nel suo essere questo, favorisce una strutturazione della personalità.

 

 

 

La seconda è che reagisci a questa mancanza e il padre interiore te lo costruisci da te, ed è quello che è successo a me: ma... un padre costruito da sé è teorico, cioè indefinito, astratto: ti lascia Soggetto e padrone di tutto, ivi compreso del fatto che sei intimamente privo di quello che solo il padre reale può dare: la «misura», quindi la certezza.

 

Solo chi ha una «misura» ricevuta in dono, trasmessa in modo fisico, per così dire, può - ad esempio - delegare una parte degli eventi e delle azioni a un padre che li valuta, da padre appunto, e ti dice: vabbè, qui puoi aver sbagliato, ma nell'insieme «va bene» - basta, hai fatto bene così, vai bene così. Di qui una notevole fatica del vivere, il cui lato positivo può anche essere una buona capacità di impegnarsi, ma il cui lato negativo è l'incapacità di mettere spontaneamente in opera una funzione di misura la quale fa automaticamente presa sulla realtà, realtà reale e realtà psicologca.

 

Non sono sicuro di aver capito quest'ultima frase, anche se penso di aver capito il resto del ragionamento.

 

Credo che sia vero quanto affermi. E' un po' quel che succede quando si apprende una lingua straniera studiandone la grammatica e il vocabolario e cercando di mettere alla prova la propria comprensione orale ascoltando programmi radiofonici e televisivi, o scritta leggendo testi in quella lingua, senza però essere mai stati in un paese in cui quella lingua la si parla o essersi mai trovati in situazioni in cui quella lingua dovesse essere utilizzata per parlare o comunicare con altre persone. Ti rendi conto che hai una conoscenza di quella lingua e che quella conoscenza, anche se parziale, magari è anche adeguata; ma, non essendoti mai trovato a viverne l'uso, ti viene sempre il dubbio che quella conoscenza sia libresca, sbilanciata e, in qualche modo, incompleta (e incompiuta).

 

Penso che questo avvenga quando, nella figura paterna, manca la componente protettiva, o perché il padre non c'è (sia fisicamente, sia perché c'è ma, magari, è poco coinvolto nel rapporto con i figli) o perché, quando c'è, in un certo senso ti abbandona a te stesso senza costituire mai un punto d'appoggio. Di sicuro questa è la mia esperienza: mio padre era una figura dalla quale non potevo prescindere e quindi era, da questo punto di vista, tutt'altro che assente, perché approvava e (più spesso) disapprovava; ma era anche distante e, pur lasciandomi, per certi versi, una notevole libertà, mi caricava di responsabilità dalle quali mi sentivo anche schiacciato, perché non avevo mai l'impressione che, di fronte a una difficoltà, avrei avuto mio padre al mio fianco, che mio padre mi avrebbe perdonato o scusato. Le cose cambiarono lentamente mano a mano che crescevo, diciamo dai venticinque anni in poi; ma, a quel punto, a me ormai non serviva più, perché mi ero abituato ad essere autonomo (una tendenza che, peraltro, in certi ambiti ho sempre avuto), a prendere da solo le mie decisioni, a cercare da solo la mia strada, magari anche perdendomi e subendo delle sconfitte, com'è successo quasi sempre. Mi è rimasta, però, una grande insicurezza, anche nei successi che, occasionalmente, ho colto (sebbene non possa certo considerarmi un uomo di successo, "riuscito") che penso sia dipesa proprio da questo rapporto con mio padre in cui era presente soltanto la componente del giudizio, quasi sempre negativo, da parte sua, e la percezione che, qualunque cosa facessi, non fosse mai "abbastanza". Fino a qualche anno fa c'era anche un desiderio di approvazione da parte degli altri, qualcosa che ormai è sparito.

 

Credo che un padre dovrebbe riuscire a bilanciare il timore e la protezione, il giudizio e l'affetto; ma posso anche capire che sia un compito difficile, qualcosa che nessuno t'insegna, e che le preoccupazioni per un figlio che cresce e che non si sa se sarà in grado di affrontare le difficoltà della vita possano finire per prevalere su tutto il resto.

 

Certo, non posso fare a meno di chiedermelo: che persona sarei, oggi, se mio padre fosse stato affettuoso o se si fosse più spesso mostrato orgoglioso di me, se mi avesse assecondato, almeno in parte, nel mio essere una persona un po' diversa dagli altri (non mi riferisco all'orientamento sessuale)?

Io credo che sarei stato una persona più felice.

Edited by privateuniverse
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privateuniverse

Nono, non è fondamentale.

 

Le nostre caratteristiche sono già completamente predeterminate, i rapporti con altre persone, a cominciare da quelle che ci crescono fin dalla più tenera età, non contribuiscono minimamente a fare di noi quel che siamo, che ci siano o non ci siano è la stessa cosa.

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Mio padre.

Mio padre è stato il primo maestro. Colui che mi ha insegnato che l'integrità e l'etica personale determinano la persona più di qualunque altra cosa nella vita. Puoi essere un operaio o un avvocato, un ingegnere o un cameriere: la tua integrità sarà il porto sicuro dove rifugiarti nei giorni difficili del giudizio e degli errori e delle incomprensioni.

Mio padre mi ha insegnato il valore del lavoro. La semplice eleganza dell'orgoglio di fare qualcosa che rende il mondo un po' migliore per qualcuno, sia pur servire un bicchiere di vino e farsi una partita a tressette.

Mio padre mi ha insegnato ad essere un individuo: sano, indipendente, con idee personali, pronto a difenderle e a prendermi le responsabilità delle mie azioni.

Mio padre me ne ha date tante, di botte, ma mai una che non avessi in qualche modo meritato.

Mio padre mi ha insegnato il rispetto.

 

Mio padre, quando ero piccolo, mi raccontava delle favole di Esopo. Lui, che aveva si e no la terza elementale, uno che veniva dalla campagna, che ha fatto l'operaio e che poi ha aperto una osteria che è diventata un famoso ristorante. Mi raccontava le favole del perchè l'asino ha le orecchie lunghe, o del lupo per cui l'uva che non poteva raggiungere era acerba. Ha creato il mio fantastico personale, mi ha aperto la mente alla fantasia.

 

Mio padre mi mise una sigaretta in bocca quando avevo 10 anni, per farmi capire, prima che diventasse una moda o una spinta sociale nella futura scuola, prima che si caricasse di infrastrutture, il significato del fumare (lui fumava) senza blocchi o preclusioni. A me non piacque, non ho mai fumato, e lui fu soddisfatto. Ma mi insegnò a separare l'hype dall'oggetto e fare delle scelte.

 

Mio padre mi ha dato sempre la possibilità di scegliere, e la libertà di farlo, posto che avessi chiaro cosa sarebbe successo. Io a 15 anni potevo tornare a qualunque ora di notte a casa, avevo amici più grandi e frequentavo posti veramente "pericolosi" per un adolescente. Ho scelto la mia scuola, non ha mai detto "studia", ed è per questo che ho imparato tanto e a scuola ero intoccabile: perchè ero libero di farla per me. Ho scelto di fare conservatorio insieme alla scuola e lui mi ha sostenuto orgoglioso, anche se della musica non gliene fregava nulla e credo non sia mai venuto a sentirmi suonare. 

 

Mio padre voleva per me delle cose, e ha fatto di tutto per spingermi verso direzioni che non volevo prendere. Il conflitto tra libertà e obbligo. Non voleva che io facessi degli errori che lui ha fatto, spingendomi a farli più e più volte, e dolorosamente.

 

Mio padre mi ha insegnato la forza del clan: la famiglia prima di tutto. Ogni cosa era discussa insieme a tavolo: io mia madre, mio padre, mia sorella. Dalla barzelletta alla lite più accesa, dal costo del pesce all'acquisto di una bicicletta. Nel bene e nel male, ha inculcato in me il concetto di clan, di difesa del territorio.

 

Mio padre era profondamente uomo e profondamente imperfetto. Non mi ha mai capito fino in fondo, eppure è quello che mi capì più di tutti, definendomi un artista quando tutti vedevano un ingegnere. Mi voleva bene? non lo so. Probabilmente si. Ma eravamo troppo distanti su certe cose: cultura, generazione, modi di pensare. E troppo uguali su tante altre, perchè non venissimo entrambi accecati dal riflesso di noi nell'altro.

 

Mio padre era invidioso di me, era il mio primo competitor, è stato un lungo scontro di potere e dominio di lui su di me, e della mia spinta a reagire. E' stato quello che mi ha spinto, fin troppo, alla competizione nella vita. Era orgoglioso di me e con gli altri si vantava, ma a me disse "bravo" solo una volta, quando mi laureai.

 

Mio padre mi ha costretto a lavorare nel ristorante fin dai miei 12 anni. Tornavo da scuola, buttavo lo zaino in un angolo e se c'era da fare si lavorava. D'estate, i sabati, le domeniche. Ha distrutto molte mie amicizie e molti miei desideri, in nome del dovere familiare. 

 

E' la persona che di gran lunga mi ha fatto soffrire di più, con le parole più che con i fatti, quello con cui ci siamo scambiati precisi affondi e dolorose coltellate l'uno con l'altro, senza protezione. E ancora oggi combatto per sanare quelle ferite profonde che lui mi ha fatto e che non guariscono.

 

Mio padre tanto mi ha dato nel bene e nel male. Quando si ammalò (per la seconda e poi per la terza volta) di tumore, nei tre-quattro anni di declino, quando tutti noi a casa, il clan, si chiuse ad autosorreggerci, a sostenerci, a difendere la nostra privacy, con mio padre parlammo molto e spesso, e piangemmo molto e spesso. Mi chiese scusa e lo chiesi a lui.

 

Ho voluto molto bene a mio padre, e mi manca. Egli ha aiutato a costruire alcune delle cose migliori di me. A rendermi uomo fino in fondo, nel bene e nel male. Questo è mio padre per me. E' il contrario che "non necessario". Per questo mi sono dilungato a raccontarlo. Spero vi sia utile.

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A casa mia ha sempre prevalso una linea ben determinata nelle relazioni interne: il ruolo di genitore, secondo loro morale e coscienza, si esaurisce nel mero sostentamento biologico della prole. Nessun intimo rapporto di confidenza, nessuna condivisione di esperienze od idee. Fino al 'credo inumano' - come avrebbe detto De Andrè - secondo il quale i figli si baciano solo nel sonno, quando, cioè, è loro preclusa ogni possibilità di ricevere e rispondere affetto.

 

Ma torniamo alla figura del padre.

 

Tempo fa, un noto esponente di psichiatria e psicologia sociale (Eric Berne) sosteneva una sorta di tripartizione dell'essere umano, una catalogazione tutto sommato non stupida che riassume per convenzione in Adulto, Genitore e Bambino. Nei suoi saggi si legge, per l'appunto, come possano instaurarsi problematiche psichiche a seconda delle interazioni scorrette tra le tre aree, laddove l'Adulto rappresenta la capacità di giudizio e di critica, la razionalità e la sensatezza; il Bambino l'istinto primigenio e imperante, l'irrazionale e l'irragionevole; e il Genitore, infine, quel complesso autoassolto di norme e imposizioni esterne imputate più alla 'tradizione' che non alla deduzione logica.

Ora, suppongo sia chiaro ed evidente come ognuna di queste tre figure debba in qualche modo formarsi ed essere alimentata. Nella fattispecie, una particolare fusione o via di mezzo tra Adulto e Genitore, ossia tra senso pratico-razionale e vincoli non sempre ponderati spontaneamente ma comunque orizzonte necessario a scandire il senso del limite.

Nel caso di assenza del padre, temo la costruzione dell'Adulto venga sensibilmente mutilata: senza una guida solida e costante, che insegni, impartisca ed esiga, esibendo una severità viziata dall'affetto e che si prodighi nella compartecipazione, si arriva a due estremi dannosi.

 

I. La forzatura del Bambino, che si trova costretto ad una crescita inappropriata e brutale, con uno strascico di tappe bruciate o mai esperite, tale da compromettere e l'inserimento sereno nella società e l'equilibrio psichico; in tal caso credo le problematiche siano legate ad eccessiva rigidità, totale controllo o supercontrollo delle emozioni vissute probabilmente come il Nemico. Ha il sapore dello stampo militare. Regole, commi, atti dovuti, e nessun tipo di spontaneità né, tanto meno, creatività.

 

II. La totale assenza di schemi razionali di riferimento, ovvero il Bambino che si rifiuta di crescere. In questo caso si verifica l'esatto contrario: vita dissoluta e dissipata, irrisione dell'autorità (soprattutto la propria), esistenza condotta giorno dopo giorno nella sola prospettiva della sopravvivenza, rifiutando ogni cura di un progetto più ampio dell'oggi.

 

L'essenza di padre può essere assunta certo da diversi supplenti validissimi: un compagno della madre degno del titolo di padre, da un nonno presente, da uno zio prodigo: quanto conta è la costanza e la - parolone - devozione al compito, e, soprattutto, l'esempio. Da che mondo è mondo, quel che conta in ogni pedagogia è l'esempio, è partendo da qui o da là che costruiamo il nostro Adulto, da atti concreti diretti verso di noi (anche ai nostri danni, naturalmente); la costruzione di un padre per via teorica è fallace proprio in questo: non si nutre della sua linfa, che è l'esempio.

 

E' chiaro che, ad una certa età o ad un certo stadio del proprio sviluppo, si voglia identificare un certo fenomeno di forza. Ma non credo sia corretto chiamarlo padre. Così com'è un errore logico dire 'sono il padre di me stesso', è anche un errore psicologico. Più adatto è il dirsi 'sono il solo da cui tutto dipende' o, il che è lo stesso 'ho forza tale da essere immune da qualsiasi lacuna; o autosufficiente'. Il secondo caso non implica il padre, bensì elogia l'autoreferenzialità.

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privateuniverse

Di mio padre ricordo soprattutto la sensazione che lui non fosse mai soddisfatto di me; che non fosse orgoglioso di me, che avrebbe voluto un figlio diverso (no, non sotto il profilo sessuale), che non fosse contento di come ero e che, qualunque cosa facessi, non sarebbe mai stato abbastanza.

 

Che, in me, ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato.

 

Quest'impronta si è talmente radicata in me che, anche quando ho saputo che le cose non stavano così, ha preso una vita propria ed è rimasta indelebile: sul lavoro, nella vita, nei rapporti interpersonali.

 

Magari è anche vero, dentro di me ne sono ancora convinto.

Edited by privateuniverse
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Mio padre è stato piuttosto assente nel periodo adolescenziale quando ne avrei avuto più bisogno. I rapporti sono migliorati dai 22-23 anni in poi, insomma quando mi stavo per laureare. Poi si è ammalato e gli sono stato (e continuo ad essergli) molto vicino.

So che mi vuole molto bene, ma so anche che quando avevo bisogno di lui da adolescente non c'è stato, purtroppo, né c'è stata mia madre, entrambi piuttosto assenti ed impegnati nel lavoro. Insomma dai 13 ai 18 anni non ho avuto quasi mai modo di confrontarmi con loro. Io facevo la mia vita e loro la loro. Ero piuttosto responsabile, ma lo ero di mio. Se avessi voluto, mi sarei anche potuto "perdere", visto che loro non erano presenti.

La cosa ha influenzato il mio carattere? Boh, forse sì. Sono una persona molto "forte" in alcuni ambiti (studio e lavoro , ad esempio, perché quelli me li sono "conquistati" facendo sacrifici) e molto insicura in altri (soprattutto rapporti interpersonali).

 

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Su un piano simbolico il valore dell'autorità paterna è -stato?- dato

dalla sua assenza, il padre al lavoro, il padre distante da un

certo agito familiare, che delega alla Madre ( latina, mediterranea

maiuscola ) il ruolo di Grande mediatrice e rassicuratrice dei figli.

 

"se tuo padre sapesse! " "vedrai cosa dice tuo padre"

"tuo padre in fondo ti vuole bene"

 

Tutte frasi che erano dette dalla madre al figlio in assenza del padre

tali per cui il Mito dell'autorità paterna era costruito in realtà interamente

dalla mamma ( cd. fantasma paterno )

 

Questo è più o meno il modello tradizionale, mediterraneo...su cui tanti

hanno scritto etc. etc.

 

Per certi versi il Padre era un Adulto che delegava alla Madre il ruolo

genitoriale a condizione che lo evocasse di continuo...in sua assenza.

Questo credo ha determinato uno schema rigido in moltissime generazioni

di figli, che hanno avuto padri molto diversi fra loro, ma schemi familiari simili.

 

Ammesso che ciò che dico abbia un senso la domanda autobiografica

è: dove mi colloco io-la mia vicenda rispetto a questo schema?

 

Mio padre, rispetto ad altri suoi coetanei si relazionava con me in

circoscritti momenti di gioco, soprattutto quando ero piccolo, ma

la sensazione è che crescendo sia stato sempre più chiamato in

causa su aspetti in cui mia madre si riteneva inadeguata o gli davano

fastidio, la sua esemplarità di adulto rimaneva abbastanza distante e

mediata ( forse anche per il fatto che essendo mia madre insegnante

non riteneva di delegare molto quanto a funzione educativa )

 

Non so se io abbia inconsapevolmente corrisposto a questo schema

rimanendone insoddisfatto, vari eventi della mia vita si sono poi accavallati

nella mia adolescenza fino ai 19 anni e tutto ciò ovviamente ha poi assunto

un rilievo assorbente.

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Filippo, ho avuto un padre con il quale ho avuto complessivamente un buon rapporto, ma scarsa comunicazione; e comunque mio padre era alquanto omofobo. Mi voleva bene, mi ha dato sicuramente affetto e degli input, era un lavoratore serio e instancabile, e aveva vari lati positivi: ma io non ho potuto integrarmi con lui quanto sarebbe desiderabile, dal momento che la figura del padre è molto importante per la formazione di un figlio (come del resto quella della madre). Quindi, da un certo punto in poi, della mia formazione di uomo intendo, ho dovuto fare da me: ho dovuto non tanto costruirmi (perché li avevo notevolmente chiari fin dall'inizio) ma dar corpo ai mie valori, al mio punto di vista sulla realtà.

 

Approfitto di questa risposta per dire che apprezzo molto il contributo di tutti voi che avete scritto. Quanto ha scritto @privateuniverse nel suo primo post è molto preciso; e in particolare il suo paragone con l'apprendimento di una lingua, in vivo o per mezzo di manuali, è molto carino e calzante. Dissento invece da @D. quando elogia l'autoreferenzialità, se ho ben capito quel che voleva dire. Aggiungo due idee.

 

La prima è che è sbagliato addossare solo al padre reale la scarsa comunicazione col figlio. Questo è un punto di vista un po' troppo passivo. A mio parere bisogna tenere conto anche del movimento contrario, ossia del fatto che anche dal figlio può partire autonomamente uno scarso o assai parziale riconoscimento del padre, proprio perché questo figlio è un adulto in potenza molto diverso dal suo padre reale, e lo avverte fin dall'inizio, anche se magari in maniera all'inizio non chiara, ma confusa, o istintiva (ed è, ad esempio, quanto è accaduto a me).

 

La seconda è che il padre è sicuramente il luogo del sociale. È nella figura del padre e nel rapporto con lui che si plasma la rappresentazione e il modo del rapporto di una persona col sociale, quindi il modo di stare nei rapporti di lavoro, in certa misura nei rapporti interpersonali, e proprio il modo in cui si vive il sociale, il mondo della prassi.

Edited by Isher
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Hanno parlato figli maturati attraverso i padri

e figli maturati nonostante i padri.

 

Mettiamoci anche la mia testimonianza,

di figlio immaturo nonostante il padre,

giusto per non farvi credere che una figura paterna presente

non possa generare un figlio irresponsabile ed edonista.

 

Ora manca solo la testimonianza di qualcuno

che sia immaturo e senza controllo

a causa dell'assenza di una vera figura paterna

e siamo al completo. :)

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privateuniverse
La prima è che è sbagliato addossare solo al padre reale la scarsa comunicazione col figlio. Questo è un punto di vista un po' troppo passivo. A mio parere bisogna tenere conto anche del movimento contrario, ossia del fatto che anche dal figlio può partire autonomamente uno scarso o assai parziale riconoscimento del padre, proprio perché questo figlio è un adulto in potenza molto diverso dal suo padre reale, e lo avverte fin dall'inizio, anche se magari in maniera all'inizio non chiara, ma confusa, o istintiva (ed è, ad esempio, quanto è accaduto a me).

 

Mi ricordo che, a proposito della comunicazione, un'osservazione simile fu fatta da Busi in un programma televisivo, anni fa, il sabato pomeriggio su Canale 5, a proposito del romanzo di Turgenev, "Padri e figli".

 

Ma, sul punto specifico, non so quanto quanto affermi possa essere pienamente condiviso. Il figlio può percepirsi come diverso rispetto al padre, ma non credo si abbia la maturità sufficiente per impostare autonomamente una forma di comunicazione prima dei vent'anni nel migliore dei casi. In un certo senso, fino a quell'età è il padre che imposta il gioco.

 

Diverso il discorso per quanto attiene al periodo successivo, nel quale si presuppone che, magari, sia proprio il figlio, più "fresco", a riconoscere e a integrare, nel proprio rapporto con il padre (e, più in generale, con il mondo) i motivi di conflitto o anche, semplicemente, di differenza, e ad impedire che essi costuiscano un ostacolo.

 

Tutto questo, ovviamente, se il figlio è intelligente; e, nell'intelligenza, rientra anche la capacità di mettersi nei panni dell'altro, di immaginare le sue reazioni, di percepire dei desideri inespressi o espressi in maniera incompiuta, incompleta.

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@Isher

 

se non c'è comunicazione e non c'è mai stata col figlio di chi è la colpa se non del padre ? quando un figlio nasce in una famiglia lui all'inizio non parla, ci è che deve parlare col figlio per insegnargli le cose della vita ?

 

se a 2, a 5, a 10 o a 15 anni non ci siamo mai parlati è perchè lui se ne stava col suo lavoro o perchè io ero ostile ?

 

se non ho mai fatto vacanze o attività con lui chi è responsabile ?

 

se non sapeva che classe facevo a scuola perchè è successo ?

 

@privateuniverse:

 

se non hai avuto un rapporto con tuo padre fino ai 20 anni perchè dovresti darti da fare dopo per ricostruirlo ?

Edited by marco77
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privateuniverse
se non hai avuto un rapporto con tuo padre fino ai 20 anni perchè dovresti darti da fare dopo per ricostruirlo ?

 

Non credo sia obbligatorio. Ci sono padri biologici che sono perfetti estranei.

 

In tutti gli altri casi, la risposta per me è semplice: perché è parte di te, che tu lo voglia o no.

 

Sono scelte, scelte che si fanno, scelte di ricerca di rapporto con le persone.

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Mi ricordo che, a proposito della comunicazione, un'osservazione simile fu fatta da Busi in un programma televisivo, anni fa, il sabato pomeriggio su Canale 5, a proposito del romanzo di Turgenev, "Padri e figli".

 

Ma, sul punto specifico, non so quanto quanto affermi possa essere pienamente condiviso. Il figlio può percepirsi come diverso rispetto al padre, ma non credo si abbia la maturità sufficiente per impostare autonomamente una forma di comunicazione prima dei vent'anni nel migliore dei casi. In un certo senso, fino a quell'età è il padre che imposta il gioco.

 

Diverso il discorso per quanto attiene al periodo successivo

 

Private, tu parli sul piano fattuale-empirico. Io invece parlavo sul piano psicologico. Intendo dire che se, de facto, è il padre che imposta e tiene le redini del rapporto con i figli e con la famiglia, insomma: ha il potere in mano - ebbene, questo non toglie il fatto che magari è proprio il figlio che non si riconosce nel padre e non riconosce il padre. Questo è un terreno nel quale mi muovo abbastanza bene perché ritengo sia proprio quanto è avvenuto a me. E chissà a quanti altri... Che magari non se ne sono potuti rendere consapevoli. Mi onora sapere che Busi è dalla mia parte. E tuttavia, questa situazione, se può essere la premessa di una scelta di sé consapevole, è certamente anche la premessa di un destino più faticoso

 

@Isher

 

se non c'è comunicazione e non c'è mai stata col figlio di chi è la colpa se non del padre ? quando un figlio nasce in una famiglia lui all'inizio non parla, ci è che deve parlare col figlio per insegnargli le cose della vita ?

 

se a 2, a 5, a 10 o a 15 anni non ci siamo mai parlati è perchè lui se ne stava col suo lavoro o perchè io ero ostile ?

 

se non ho mai fatto vacanze o attività con lui chi è responsabile ?

 

se non sapeva che classe facevo a scuola perchè è successo ?

Marco, mi dispiace che ti sia successo questo. Tuo padre era certamente un irresponsabile, forse un anaffettivo, certo una persona molto difettosa, sicuramente come padre, ma anche in generale come persona. È chiaro che in questo caso è lui, e lui solo, che non ha riconosciuto il figlio, e probabilmente anche la famiglia in toto. 

 

Hanno parlato figli maturati attraverso i padri

e figli maturati nonostante i padri.

 

Mettiamoci anche la mia testimonianza,

di figlio immaturo nonostante il padre,

giusto per non farvi credere che una figura paterna presente

non possa generare un figlio irresponsabile ed edonista.

 

Almadel, tu parli del padre assente/presente, come si fa per solito. Indubbiamente si può farlo, anzi è legittimo farlo. Però ci terrei che tu capissi che la questione non si limita alla presenza o assenza del padre: la questione del riconoscimento o non-riconoscimento del figlio, ed eventualmente del non-riconoscimento del padre da parte del figlio, è più ampia (per definizione). È questo punto di vista (riconoscimento/non-riconoscimento, corrispondenza/non corrispondenza) che legittima, tra l'altro, la possibilità del caso che tu prospetti: un padre presente che genera un figlio diciamo così irresponsabile.  

 

Nel termine riconscimento includo varie cose; è un termine sintetico: c'entrano dentro maturità, responsabilità, cuore, capacità varie. 

Edited by Isher
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Io ho un buon rapporto con mio padre, l'unico aspetto che potrei criticargli è la tirchiaggine, ma nemmeno poi troppo esagerata, col senno di poi ha fatto bene a non concedermi troppi lussi come facevano i padri di diversi miei amici (audi a3 e golf come se piovessero regalate ai figli per la patente, tanto per fare esempi)...

 

Per il resto trovo che stiamo scadendo in uno dei peggiori clichè, secondo il quale i gay sono tali, o hanno comunque problemi psicologici, in quanto hanno avuto un padre assente...potrei fare domani a narrare di persone debosciate da me personalmente conosciute, cresciute con genitori validi e assolutamente presenti...

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Per il resto trovo che stiamo scadendo in uno dei peggiori clichè, secondo il quale i gay sono tali, o hanno comunque problemi psicologici, in quanto hanno avuto un padre assente...potrei fare domani a narrare di persone debosciate da me personalmente conosciute, cresciute con genitori validi e assolutamente presenti...

 

Scusa, Ben, ma a me sembra che sei tu che stai scadendo in questo cliché (con l'accento acuto, non grave). Nessuno finora ha parlato di questo. Si è parlato di maturazione e formazione della personalità, con esempi molto precisi in tal senso - sei tu che hai un lapsus veramente feudiano e associ questa maturazione o mancanza di maturazione all'omosessualità  :sarcastichand:

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la mia esperienza personale è esattamente speculare a quella di Isher: ho avuto un rapporto molto forte con mio padre, che è stata per me una figura di riferimento essenziale fin da piccolissimo

mio padre non era uomo di grandi gesti affettuosi eppure era palese che tra noi c'era una corrente di affetto e di intesa molto forte

il mio problema in realtà è stato l'assenza della madre, o meglio la sua presenza fin troppo eccessiva, che tendeva a mascherare una sostanziale anaffettività

inoltre (questo l'ho capito solo dopo la morte di mio padre) mia madre si è sempre sentita in competizione con me per guadagnarsi l'affetto di mio padre, questo per tanti motivi (la grande differenza di età e il fatto che lei perse suo padre da bambina)

lei ha fatto di tutto per allontanarci, con una raffinatezza "crudele" che poteva solo derivargli dall'inconsapevolezza della gravità delle sue azioni, non c'è mai riuscita del tutto ma certo ha reso a tratti faticoso questo rapporto privilegiato con mio padre

ancora adesso lei è sostanzialmente gelosa di mio padre, ne cura la tomba in modo maniacale e non ha piacere che andiamo insieme al cimitero (non lo dice apertamente ma lo fa capire fin troppo bene); è una persona che regala molto (in termini di oggeti materiali, come per sdebitarsi) ma ad esempio non accetta i regali, perché rifiuta i gesti di affetto e teme di dover provare riconoscenza

mia madre è una persona di cui sostanzialmente non mi sono mai fidato, e infatti non sa nulla di me, non conosce i miei amici, i miei affetti, e neanche i miei veri interessi: ma questa è stata una mia scelta, un'autodifesa da una persona che sostanzialmente sento come estranea e in una certa misura "avversa", la madre come la Kalì indiana

molte altre cose potrei narrare al riguardo ma credo di aver reso l'idea: tutto questo ovviamente non mi ha aiutato a sviluppare un buon rapporto con il femminile, c'è una diffidenza di fondo con mia madre che ho riversato in tutti i rapporti con le donne

ovviamente non sono così semplicista da dire che questo ha influenzato anche la mia omosessualità, non credo sia così: ma certo è stato un co-fattore importante

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Scusa, Ben, ma a me sembra che sei tu che stai scadendo in questo cliché (con l'accento acuto, non grave). Nessuno finora ha parlato di questo. Si è parlato di maturazione e formazione della personalità, con esempi molto precisi in tal senso - sei tu che hai un lapsus veramente feudiano e associ questa maturazione o mancanza di maturazione all'omosessualità  :sarcastichand:

 

 

Nessun lapsus, non associo proprio nulla, quindi non rigirare la frittata...mi sono limitato nel commentare le situazioni di disagio causate, soltanto ed esclusivamente secondo voi, dall'assenza di una figura paterna.

 

Se vai a rileggere i miei vecchi interventi vedrai che la mia posizione è sempre la stessa: ovvero che imho un figlio, salvo problemi del singolo, che non accenno onde evitare che qualche anima candita possa sentirsi offesa, cresca bene e senza fisime mentali anche con un solo genitore, o addirittura con una sola figura affettiva (esempio una zia, per citare un caso che conosco personalmente)...come del resto, come scritto sopra, può crescere da sbandato anche in un contesto di famiglia da mulino bianco.

Esprimendo disagio per un padre poco presente, tu stesso, nel post #1, hai praticamente dato ragione a quegli omofobi che la menano con la storia dell'imprescindibilità di una figura paterna e di una materna...non so se te ne sei reso conto.

 

 

p.s. mi prostro per aver usato l'accento errato...sai, scrivendo da un cellulare, è già tanto se ho usato un accento piuttosto del piu' comodo apostrofo... in ogni caso, se nemmeno un disclaimer inserito in firma aiuta in tal senso, capisco davvero che ogni mio ulteriore post qui dentro è tempo buttato al cesso...

Edited by ben81
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Questo è un bellissimo topic, e trovo le varie testimonianze (in particolare quella di Korio) molto toccanti.

Io mi sento troppo giovane per scrivere qualcosa di veramente significativo...però mi accorgo, crescendo, che sono sempre più simile a mio padre, in alcuni suoi difetti (altri li combatto perché non diventino miei), e nel suo modo di guardare e ragionare. Lui fotografo, io disegnatrice. Mi accorgo di essere come lui in cucina, sia da cuoca che da 'mangiatrice'. 

Non so come esattamente mi abbia trasmesso tutto questo, perché non ci ha mai davvero provato, non mi è chiaro se sia semplice vicinanza, o un'inconscia imitazione da parte mia. 

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Non me ne sono reso conto, @ben81, perché non è vero. Se uno dice che il padre concorre alla formazione di un figlio o una figlia in modo determinante, come del resto una madre, dice un'ovvietà - e solo una persona totalmente sprovvista di cultura e buon senso può negarlo. Se uno usa questo dato di fatto per negare l'adozione di figli a coppie dello stesso sesso, sposa una posizione omofoba, contraddetta dalle risultanze psicologiche. Perché queste risultanze non negano affatto la rilevanza della funzione psicologica materna e paterna, che può essere incarnata da altri rappresentanti: zie o zii, cugini o cugine, ma anche bambinaie o professori, e Dio sa quante altre figure vicarianti. Anzi, credo che presuppongano proprio questa rilevanza vicariante.

Mi sembra tremendo e orrendo, poi, dovermi difendere dall'accusa di aver espresso disagio per l'assenza di una figura paterna, quand'anche lo avessi fatto!

Ma non l'ho fatto: non ho impostato la questione in questi termini, e, come ho già avuto modo di precisare ad Almadel, a mio vedere il problema non è la presenza o l'assenza, - che legittimerebbe apparentemente la conclusione che tu vuoi trarne circa l'adozione: ma ti ho già spiegato che non la legittima, invece - bensì l'integrazione, la corrispondenza, il bilaterale riconoscimento o non-riconoscimento.

Per chiarire il più possibile quest'ultimo punto: l'assenza o la presenza sono questioni fattuali/empiriche, materiali, che non hanno effetti determinati, determinabili: infatti producono i più diversi esiti, come è stato anche accennato. Forse hanno un effetto tendenziale, ma non si va oltre questa indicazione generica. Il riconoscimento o meno, invece, è una questione psicologica. Inoltre, il riconoscimento o non riconoscimento di una funzione, materna o paterna, spiega come la figura materna possa essere rappresentata, ad esempio, anche da zie, o insegnanti, o bambinaie, e analogamente quella paterna.

Infine, tutte queste funzioni hanno, secondo me (ma ben altri lo avranno detto), una portata storica, storico-simbolica. Tra diecimila anni, quando i bambini saranno cresciuti da coppie dello stesso sesso, oppure creati in vitro, questo discorso varrà molto meno, o forse per nulla. Ma oggi, dopo migliaia di anni di famiglia eterosessuale, è ben difficile negare che abbia senso.

Edited by Isher
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Io con mio padre ho vissuto sempre in simbiosi, ci riconosciamo l'uno nell'altro, nonostante i gusti e modi di pensare diversi ci troviamo talmente sulla stessa frequenza d'onda che riesco a prevedere ogni  sua minima reazione e lui la mia, anche le nostre liti sembrano soltanto  rituali con un'esito già programmato. Non posso dire che lui ha esercitato su di me l'autorità paterna, ha sempre cercato di darmi più autonomia possibile ed appena ho raggiunto "l'età della ragione" è diventato per me un amico più che un padre per il quale la mia approvazione era e continua ad essere non meno importante che per me la sua... Con mio fratello invece non è riuscito a  costruire un rapporto cosi bello, nonostante il fatto che come padre per mio fratello era presente più che per me. Si vogliono bene, mio fratello sa che può contare sul supporto morale, materiale etc del padre qualsiasi cosa accade ma sono talmente diversi che non si riescono a capire, mio fratello ammira mio padre da lontano come una specie di animale esotico e mio padre fa altrettanto...

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Forse ho frainteso il tono di questo topic.

 

Quando faccio da tutor ad adolescenti, quelli che vengono mandati da me per ripetizioni di matematica ma soprattutto per un sostegno psicologico (è la mia specialità in effetti), spiego loro che il passo fondamentale nel diventare adulti, è capire come i genitori, il padre e la madre, sono soprattutto esseri umani, che fanno il loro meglio ma che non sempre può essere "il meglio".

 

Questo aiuta a prendere la distanza, a volte, dalla nostra insita fragilità verso i nostri genitori, che hanno le chiavi (che se lo ricordino o meno poi) di entrare nella nostra anima senza che noi possiamo difenderci, a comprendere meglio sia le ferite che i doni, le lezioni e gli errori.

 

Detto questo, la nostra crescita, il nostro imprinting, dipende da tanti fattori, il padre (e la madre) sono solo alcuni. Milioni di bambini nati e cresciuti in contesti senza madre, senza padre, educati da fratelli, da nonni, in orfanotrofio, da comuni, in famiglie complicate ... le cui vite sono state splendide o terribili o insignificanti alla stessa maniera dei bambini nati in condizioni "canoniche", hanno raccontato che la cosa importante in realtà è una sola: l'amore.

 

E' l'amore l'imprinting fondamentale della nostra infanzia e adolescenza. Ed è la mancanza di amore (o la percezione della mancanza di amore) che rende difficile o carente a volte la nostra crescita.

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