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Brexit, referendum sull'uscita dall'UE nel Regno Unito


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Che io sappia non c'è una lingua ufficiale dell'UE

e tutte le lingue europee hanno pari dignità

(per la gioia della casta degli interpreti & traduttori).

Tuttavia l'inglese viene considerata come prima lingua, seguita dal francese e dal tedesco.

Tutte sono lingue ufficiali: http://ec.europa.eu/languages/policy/linguistic-diversity/official-languages-eu_it.htm

 

Suppongo che l'inglese continuerebbe comunque a rimanere sui siti, nei documenti e quant'altro, essendo la lingua ''franca'' nel mondo.

Edited by Layer
Io mi auguro la Brexit per i motivi opposti a quelli di Iron84 :)

Esatto anche io!

 

Ma se la Brexit avesse luogo l'inglese non sarebbe più lingua ufficiale dell'UE?

tutte e 24 sono lingue ufficiali.

 

L'inglese non è più importante perché è parificato come lingua di lavoro a francese e tedesco.

(In passato le lingue di lavoro erano tedesco italiano francese ed olandese).

 

L'inglese resterebbe lingua ufficiale fra le altre per il banale fatto che è lingua ufficiale in Irlanda e a Malta.

Edited by Sampei
L'inglese non è più importante perché è parificato come lingua di lavoro a francese e tedesco.

 

 

L'inglese resterebbe lingua ufficiale fra le altre per il banale fatto che è lingua ufficiale in Irlanda e a Malta.

 

Effettivamente, mi era sfuggito...

 

 

(In passato le lingue di lavoro erano tedesco italiano francese ed olandese).

 

Solo perché il Regno Unito entrò molto più tardi nella Comunità europea (negli anni Settanta, se la memoria non mi inganna).

Solo perché il Regno Unito entrò molto più tardi nella Comunità europea (negli anni Settanta, se la memoria non mi inganna).

 

Sarebbe dovuto entrare negli anni '60, ma De Gaulle mise il veto e così entrò nel 1973 insieme a Irlanda e Danimarca.

Mi pare fosse legata all'EFTA (alternativa anti-CEE), la cosa. Ma non ricordo se la sua istituzione fu prima o dopo il rifiuto per accedere alla Comunità europea.

 

Tra il 1957 e il 1963 fu Primo Ministro britannico il conservatore Harold Macmillan, che si rese conto che la Gran Bretagna non era più una potenza mondiale ma solo regionale e in difficoltà economica, rinunciò quindi al sogno di neutralizzare la Comunità economica europea e appoggiò la nascita dell'EFTA, nel 1960, associazione di libero scambio per quelle nazioni europee che non potevano o non volevano entrare nella CEE.

segnalo un bell'articolo del Telegraph a favore della Brexit

 

 
l'articolo contiene alcune immagini formidabili, tipo questa
 
We are deciding whether to be guided by a Commission with quasi-executive powers that operates more like the priesthood of the 13th Century papacy than a modern civil service; and whether to submit to a European Court (ECJ) that claims sweeping supremacy, with no right of appeal.
 
ma soprattutto, fa capire che non si può continuare ad opporre alla Brexit dei puri argomenti di tornaconto economico, come sta facendo Cameron e il mondo economico finanziario, in testa l'ineffabile Schauble che minaccia di tenere fuori l'UK dall'area di libero scambio europeo, ma sarebbe necessario proporre qualche argomento "politico" che vada nella direzione di una reale evoluzione dell'attuale assetto europeo
Edited by conrad65

Internazionale

 

A dieci giorni dal referendum che potrebbe decretare l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, il risultato è sempre più in bilico. Anzi, stando agli ultimi sondaggi, il fronte dell’uscita sembra avere un piccolo vantaggio.

 

Come siamo arrivati a questo punto? Com’è possibile che i miei concittadini siano così delusi dal progetto Europa – nel quale sono coinvolti da più di quarant’anni – da essere disposti anche ad accettare il caos finanziario e la flessione salariale che molto probabilmente seguirebbero, almeno nel medio termine? Non sono solo io a pensarlo: in un sondaggio di cento economisti internazionali condotto dal Financial Times a gennaio, solo l’8 per cento credeva che l’economia britannica sarebbe uscita più forte dalla scissione, contro il 76 per cento che prevedeva un peggioramento.

 

I britannici sembrano così delusi da essere pronti anche a gettare al vento uno status speciale difeso con le unghie e con i denti da tutti i primi ministri britannici degli ultimi decenni, da Margaret Thatcher a John Major, Tony Blair, Gordon Brown e David Cameron. Uno status che molti altri stati membri ci invidiano e che ci permette di stare dentro l’Europa ma con una moneta propria e con un rimborso di più della metà dei contributi versati annualmente a Bruxelles.

 

La matassa delle intenzioni di voto

 

Il perché forse va cercato in un’analisi più precisa delle intenzioni di voto per il referendum del 23 giugno espresse nei vari sondaggi. Sul sito del settimanale The Economist c’è uno strumento molto utile, basato sui vari sondaggi usciti in questi mesi, che permette non solo di seguire la matassa attorcigliata formata dalle due linee che rappresentano le intenzioni di voto da gennaio a oggi, ma anche di scomporre i dati per regione di residenza, per appartenenza politica, età, fascia di reddito eccetera. Giocandoci, vengono fuori dei valori sorprendenti: vorrei proprio conoscere, per esempio, le ragioni del 4 per cento di simpatizzanti dell’Ukip (il partito euroscettico) che vorrebbero rimanere nell’Ue.

 

Ma sono tre dati in particolare a far riflettere. Uno è la frattura netta tra la Scozia europeista e l’Inghilterra euroscettica – come anche, a sorpresa, il Galles (l’Irlanda del Nord, che non appare nell’analisi dell’Economist, si schiera per l’Europa almeno quanto la Scozia, come traspare da un grafico nascosto in questo articolo del Financial Times). L’altro è l’importanza del voto dei giovani, che potrebbero rappresentare l’ago della bilancia se il paese dovesse salvarsi, per un soffio, dal disastro economico ma soprattutto morale della Brexit: stando alla media dei sondaggi più recenti calcolata dall’Economist, nella fascia 18-24 anni il 60 per cento degli intervistati vorrebbe rimanere in Europa e solo il 22 per cento uscire (gli altri non sanno o non rispondono). Tra gli ultrasessantenni, invece, c’è un 58 per cento favorevole al commiato e solo un 32 per cento che si dichiara per la permanenza.

 

La terza spaccatura, forse quella più rilevante, è quella tra ricchi e poveri. Solo il 38 per cento di chi si definisce professionista o manager vuole il divorzio da Bruxelles, contro il 52 per cento dei colletti blu e dei disoccupati (e tra questi solo il 31 per cento vorrebbe continuare il matrimonio europeo; in tanti non sanno o non rispondono).

 

Non serve essere Sherlock Holmes per dedurre che il “problema Europa” è un problema soprattutto inglese, non britannico in generale, e che è un problema soprattutto degli inglesi che hanno sofferto di più la crisi economica degli ultimi otto anni. In questa fascia sociale, l’euroscetticismo – che è sempre esistito in Gran Bretagna e di cui negli anni ottanta era portavoce Margaret Thatcher – è stato alimentato da una visione del libero movimento di persone in Europa come una minaccia ai “nostri” posti di lavoro e un rischio al sistema sanitario e previdenziale, che sarebbe spremuto dai cosiddetti benefit tourist (turisti assistenziali).

 

L’impero non c’è più

 

In questo ha una grande responsabilità David Cameron, sicuramente uno dei primi ministri britannici più inetti dal 1945 a oggi. Prima ha fatto la voce grossa sull’immigrazione, disegnando scenari apocalittici (per esempio quando fu liberalizzato l’ingresso dei lavoratori romeni e bulgari, all’inizio del 2014), poi ha cercato di correre ai ripari quando si è accorto che il clima di diffidenza verso lo straniero, per non dire di razzismo, che lui stesso aveva alimentato era ormai diventato irrefrenabile, grazie anche all’Ukip di Nigel Farage e all’isterismo della stampa popolare, The Sun, The Daily Mail e The Daily Express in testa. Cameron, oggi, somiglia a uno che si è sparato addosso durante una battuta di caccia (ricordo che nel caso di una vittoria dello schieramento favorevole all’uscita, ha già promesso di dimettersi da premier e da segretario dei tory).

 

Ma alla base del dilemma amletico dell’Inghilterra ci sono anche altri motivi. L’inglese medio, anche se non ha studiato un granché di storia, sa di appartenere a una nazione che una volta comandava (o almeno sfruttava) più di un quarto del globo. Adesso, fatta eccezione per la City di Londra – un quasi paradiso fiscale che non incide un granché sulla vita di un addetto alla nettezza urbana se non costringendo lei o lui ad abitare sempre più lontano dal centro della capitale con gli affitti più alti d’Europa – questo impero è giunto alla frutta, ed è frutta secca. Ne deriva un risentimento diffuso, alla ricerca di un bersaglio. In questo caso, il bersaglio è facile facile: l’Europa.

 

Di conseguenza è molto probabile che il referendum del 23 giugno sarà determinato più dai pregiudizi che non dai fatti. Mentre scrivo, apprendo che Sarah Wollaston, una parlamentare conservatrice inglese che si era schierata nei ranghi degli antieuropeisti, ha cambiato posizione per protesta contro “la menzogna” sparata dalla campagna per l’uscita che calcola in 350 milioni di sterline alla settimana il contributo britannico all’Unione europea, soldi che per loro sarebbero spesi meglio nell’Nhs, il sistema sanitario nazionale.

 

La defezione di Wollaston sta già scatenando una guerra di cifre che quasi sicuramente lascerà le posizioni così come erano. In questa campagna (come in molte altre), chi spara un dato grossolano è in vantaggio su chi lo corregge. Un altro esempio: da molti mesi, tra gli euroscettici britannici sta girando su Facebook e Twitter il seguente mantra: “Lord’s prayer: 66 words. Ten commandments: 179 words. Gettysburg address: 286 words. Eu regulations on the sale of cabbage: 26.911 words”. Ovvero: “Padre nostro: 66 parole. Dieci comandamenti: 179 parole. Discorso di Gettysburg: 286 parole. Regolamento della comunità europea sul commercio dei cavoli: 29.611 parole”.

 

Si tratta di una leggenda metropolitana, che deriva da una legge agricola del governo statunitense degli anni quaranta. Un’indagine della Bbc ha rivelato che perfino il numero “26.911” è diventato un tormentone ricorrente. Ma continuerà a girare, perché la voglia di crederci fregati dai burocrati europei è più forte, ahimè, dell’amore per la verità.

 

Non è impossibile che la Gran Bretagna (i cui europarlamentari si schierano con la maggioranza in ben sette voti su otto, a dispetto di chi, come Nigel Farage, spaccia il paese come bastian contrario) avrebbe maggiori risorse pubbliche e private a disposizione nel caso di una scissione. Non solo perché il paese risparmierebbe il contributo annuale versato all’Ue ma anche (dicono i leaver) perché non sarebbe più soggetto a fastidiosi regolamenti europei. Come, per esempio, quelli che tutelano la qualità dell’aria che respiriamo o i diritti dei lavoratori. Sganciati da Bruxelles, potremo benissimo scegliere di diventare più ricchi a forza di inquinamento e licenziamenti facili.

 

L’esempio norvegese

 

Il “caso Norvegia” è citato molto spesso dai Brexiter – solo che di solito dimenticano di fare presente che questo paese che non fa parte dell’Unione europea ha scelto comunque di applicare 93 dei 100 regolamenti Ue più costosi, un po’ perché la Norvegia è un paese civile e un po’ perché l’applicazione di molte di queste regole è una condizione dettata dal bisogno di fare affari nel resto d’Europa.

 

Tali considerazioni cadono nel vuoto per la maggior parte dei Brexiter, convinti come sono che l’unico modo di “make Britain Great again” (rendere di nuovo grande la Gran Bretagna) è di “take back control” (riprendere il controllo), per citare due degli slogan sfoggiati in questi mesi da quelli come Boris Johnson, probabile successore di David Cameron nel caso di un vittoria dei leaver. In un recente discorso a Manchester, il latinista biondo ha paragonato i suoi connazionali a “passeggeri di un taxi abusivo con il navigatore satellitare guasto guidato da un autista che non parla bene l’inglese e che ci porta in una direzione in cui, francamente, non vogliamo andare”. Politico arguto che sa fare il giullare quando serve, Johnson sa che la battuta facile è molto più forte del noioso e arido fatto.

 

Nel corso della campagna pro e contro l’Europa, ci sono stati (in tv, alla radio, nei giornali di qualità e siti di informazione) dei dibattiti colti e consapevoli sulla Brexit. Quello che è mancato è la partecipazione capillare di tutte le classi sociali e soggetti istituzionali che abbiamo visto animare ogni più piccolo paese della Scozia prima del referendum sull’indipendenza. Nel referendum europeo, invece, sta prevalendo non la partecipazione di massa bensì l’impuntarsi di massa.

 

Il clima che si respira in questi giorni prima del 23 giugno è così poco razionale e il risultato così incerto che potrebbe anche avere un peso l’andamento delle squadre dell’Inghilterra, del Galles e dell’Irlanda del Nord agli Europei in Francia. Chissà se l’arbitro italiano Nicola Rizzoli, scelto per la prima partita dell’Inghilterra contro la Russia, l’11 giugno, era pienamente consapevole della pesante responsabilità che aveva sulle spalle.

 

Nel frattempo ho fatto domanda per avere la cittadinanza italiana. Non solo a causa di una possibile Brexit. Il motivo principale è che (in un’altra delle sue trovate geniali) il governo britannico nega il diritto di voto alle elezioni politiche ai cittadini che sono residenti all’estero da più di quindici anni. Dunque sono 17 anni ormai che mi trovo privato di un diritto fondamentale, diritto che acquisirei in Italia (dove risiedo e pago le tasse) solo diventando cittadino.

 

Ma non vi preoccupate: non dirò agli amici britannici che la legge italiana numero 362 del 18/04/1994, articolo 3, prevede che il procedimento per la richiesta di cittadinanza italiana venga concluso “in 730 giorni”. Sono già abbastanza impauriti dalla burocrazia europea, poverini.

Edited by Rotwang
Silverselfer

Di solito i pronostici non li azzecco mai, quindi ho buona speranza di vedere disatteso anche questo ... tuttavia, secondo me, gli inglesi voteranno per uscire dall'Europa. 

 

L'aspetto poco raccontato di questo referendum è quello dei nostalgici del Commonwealth Britannico, da tenersi distinti dai nostalgici dell'Impero che sono da paragonarsi ai neofascisti o neonazisti, per intenderci --> questi hanno molto a che vedere con il battibecco avvenuto tra Obama e il sindaco uscente di Londra Johnson, che lo ha definito "mezzo keniota" arrivando ad accusarlo impropriamente di aver fatto rimuovere il busto di Churchill dallo studio ovale, in quanto quello non a caso era il miglior amico di Mussolini e come tale si comportò nelle colonie dell'Impero Britannico. .

 

I nostalgici del Commonwealth sono imperialisti ma nel senso neoliberista e sono gli stessi che per tutto questo tempo hanno mercanteggiato la permanenza di Londra nella comunità europea con il continuo ricatto di una brexit. Innanzi tutto bisogna capire cos'è stato il Commonwealth Britannico ... difficile da dire in due parole ... diciamo che preservava i rapporti economici con le ex colonie ... è un aspetto molto ambiguo che andrebbe visto caso per caso, perché in tal modo si è favorito o persino pilotato l'ascesa di una classe dirigente decisamente filo britannica ... dando origine a dinastie che ancora oggi controllano politicamente le ex colonie. 

 

Chissà se riuscirò a spiegarmi? 

 

Insomma, si creò questo salotto buono molto esclusivo. Una roba molto poco democratica che puzzava proprio tanto di vecchio impero e per questo causava instabilità politica nelle ex colonie ---> terrorismo anti imperialista di matrice socialista. Qualcosa che somiglia a quello che ancora oggi spara nella macro regione del golfo del Niger e che rapisce periodicamente anche gli ingegneri dell'ENI (da non confondersi con il terrorismo islamico). 

 

Sempre con molto spirito pragmatico, il Regno Unito accoglie alcune istanze di questi comunisti e il Commonwealth diventa "delle nazioni", cioè diventa più democratico e un po' meno massonico. Raccoglie ben 53 Stati e se ne preserva 16 direttamente connessi alla corona inglese, tra cui Australia, Canada e Nuova Zelanda, dove ancora oggi la corona nomina dei governatori. Il CN esiste tutt'ora, ma proprio a seguito dell'adesione del Regno Unito alla Comunità Europea, dovette aprirsi alle regole e ai principi di libero scambio degli europei continentali. 

 

Siamo nel 1975 e l'Europa era lontana anni luce da quella che conosciamo oggi ... un modello ispirato al Benelux. Il Regno Unito aderì a quell'idea di Europa e non all'utopia di Spinelli, Rossi, Colorni e Hirshmann del Manifesto di Ventotene. Non solo, ma il Regno Unito fu costretto, anche solo per convenienza, ad aderire al mercato europeo perché questo si mise in concorrenza con il Commonwealth. 

 

Precisamente si era firmata a Yaoundé(Camerun) nel 1963 una convenzione con 18 Stati Africani che avevano appena raggiunto l'indipendenza, riuniti nel SAMA (Stati Africani e Malgascio associati). Nel 1969 i trattati andavano riconfermati e altre ex colonie volevano cogliere le opportunità offerte al SAMA e si firmarono i trattati di Arusha con gli Stati membri dell'East African Community (Kenya, Uganda e Tanzania) . Nel 1972 si aggiungono le isole Mauritius e poi si fece il colpo grosso tirando dentro anche la Nigeria. Il Commonwealth perdeva pezzi e al successivo rinnovo delle convenzioni, il Regno Unito decise di sedersi al tavolo delle trattative entrando nella CEE. 

 

Siamo nel 1975 e la convenzione di Yaoundé diventa di Lomé (Togo) e sarà il modo con cui il Regno Unito si piega alla volontà europea e al suo modo di trattare con le ex colonie, riunite nella sigla ACP (Africa, Caraibi, Pacifico). Un rapporto almeno sulla carta paritetico, che per i nostalgici del Commonwealth Britannico ha significato una disgrazia economica. La permanenza nella comunità europea è stato un continuo mal di pancia per gli inglesi cui le cose stavano bene alla vecchia maniera. Ora che l'Europa ha una bandiera e secondo l'aria che tira, o si va avanti nell'integrazione o va tutte a carte quarantotto. i pragmatici inglesi subodorano il fallimento e vogliono sganciarsi. 

 

Quello che temo è che la Brexit causerà un rinfocolarsi delle guerre a bassa intensità, aggravando le ondate immigratorie proprio sulle nostre coste. Il paradosso è che sti politicanti si sciacquano la bocca dicendo ---> aiutiamoli a casa loro ---> Sono secoli che li stiamo "aiutando" ... quando basterebbe pagare ciò che ci prendiamo dalla loro terra.

 

Odio l'ipocrisia della retorica politica... 

Saramandasama

La Cina li sta aiutando. Certo, tra 50 anni quando esisterà la Repubblica Popolare Sinoafricana, e cinesi saranno su Marte ad estrarre litio per l'iPhone 500, l'Europa come la conosciamo già non esisterà più soppiantata dall'Eurabia. -Cit

No le lingue sono tutte uguali ma alcune sono più uguali delle altre (principio fondante di questa splendida famiglia europea)

I documenti ufficiali sono tradotti in sole tre lingue: il tedesco perché parlato da più cittadini ( soprattutto perché tedeschi, se fossero stati i polacchi in 80 milioni la regola non sarebbe esistita ca va sans dire) anche il Francese perché hanno frignato, infine inglese come lingua franca.

 

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La Cina li sta aiutando. Certo, tra 50 anni quando esisterà la Repubblica Popolare Sinoafricana, e cinesi saranno su Marte ad estrarre litio per l'iPhone 500, l'Europa come la conosciamo già non esisterà più soppiantata dall'Eurabia. -Cit

Le profezie di Oriana Fallaci

 

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Edited by Iron84

I documenti della commissione sono tradotti in tre lingue, gli altri no, basta fare un giro su Eur Lex per accorgersene.

Questo non significa che non ci sia un problema linguistico nell'UE, ma lo scoglio più grosso è la commissione. Tensioni già ci sono (per esempio il caso del brevetto europeo, oltre a concorsi che vengono regolarmente contestati perché i bandi o le procedure non rispettano il multilinguismo). L'inglese finora è stato tollerato perché nel bene o nel male il Regno Unito è un pezzo importante nella UE. Non so cosa farà l'Italia, ma vedo benissimo la Spagna mettersi a fare pressioni perché lo spagnolo diventi lingua ufficiale della commissione. 

Il problema di una vera lingua franca è che non dovrebbe essere lingua ufficiale di nessun paese membro, per non dare a nessuno dei vantaggi. 

La Repubblica

 

"La morte di Jo Cox è una tragedia" per la Gran Bretagna. Il premier David Cameron ha aggiunto che la deputata laburista "era una parlamentare impegnata e premurosa, i miei pensieri vanno a suo marito Brendan e ai suoi due figli piccoli", si legge in una nota diffusa da Downing Street.

La Gran Bretagna non parla più di Brexit. Entrambe le parti, sia a sostegno della Brexit, 'leave', sia a favore del 'remain' hanno deciso di sospendere tutte le attività previste per oggi, in una giornata iniziata con gli appelli della comunità internazionale contro l'uscita britannica dal blocco comunitario. "Ora è assolutamente appropriato che tutte le campagne per il referendum siano state sospese" fa sapere con una nota il ministro dell'Interno di Sua Maestà, Theresa May. Ancora non si sa quando riprenderanno le due opposte campagne in vista del referendum del 23 giugno. Il ministro May ha anche fatto sapere che "i dettagli di quello che è successo non sono ancora chiari e fino a quando gli eventi non saranno completamente ricostruiti non commenterò ulteriormente".

 

Il "terrificante assassinio" di Jo Cox, la 41enne deputata anti-Brexit, che ne avrebbe compiuti 42 il 22 di questo mese, "è uno shock per il nostro Paese". Questo il primo commento di Jeremy Corbin, leader del Partito Laburista nelle cui file militava la vittima. "Era una collega molto amata", ha aggiunto Corbyn.

 

Cox, ha aggiunto Corbyn, "era molto impegnata verso l'umanità, per il mondo in via di sviluppo e per i diritti umani". Ancora, per Corbyn, "Cox è morta svolgendo i suoi doveri pubblici che sono al cuore della nostra democrazia". Anche il numero due del partito, Tom Watson, ha detto che "tutto il Labour è devastato". Da entrambi sono arrivate le condoglianze al marito della deputata e ai loro due bambini.

 

Su Twitter centinaia i commenti dei cittadini, e aumentano ogni secondo. Nigel Farage, leader dell'Ukip, si dice "profondamente rattristato" e offre "le più sincere condoglianze alla sua famiglia".

 

"Un orribile atto di odio che getta un'ombra sul cuore di tutti noi; odio che non prevarrà mai né in Inghilterra né altrove", sono le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che esprime al leader laburista Jeremy Corbyn e al premier britannico David Cameron lo sgomento e il dolore suo personale, di tutto il governo italiano e del Pd per la gravissima aggressione.

 

"La nostra profonda indignazione per questo terribile e vile omicidio. Siamo scioccati per quanto avvenuto e rivolgiamo alla famiglia della deputata, al Labour e al popolo britannico le nostre sentite condoglianze e la vicinanza di tutto il Partito Democratico per questa orribile tragedia", afferma Lorenzo Guerini, vice segretario del Pd.

"Agghiacciante l'assassinio di Jo Cox, deputata laburista quarantunenne. Sono allibito". E' il commento del ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, pubblicato sul suo account.

 

Anche Matteo Salvini commenta. Dichiara "dolore per la morte di una deputata inglese, di una mamma innocente uccisa da un pazzo assassino" ma, continua, "mi auguro che questo non fermi la giusta battaglia inglese per liberarsi da una Unione Europea che porta solo disoccupazione, fame e immigrazione", afferma il leader della Lega.

"La morte della deputata laburista Jo Cox è una tragedia per la politica europea e per tutti quelli che credono ancora nel sogno di un'Europa unita e solidale. Jo Cox era un modello per il suo interesse a sostegno dei migranti e per l'impegno politico sul conflitto in Siria. Atterrisce che alla vigilia del referendum la violenza abbia gettato un'ombra su questa consultazione, facendo calare su tutta l'Europa una cappa pesante. In questo momento ci stringiamo idealmente alla famiglia Cox, a tutti i sostenitori del partito Laburista inglese e a Jeremy Corbin. Siamo sicuri che in attesa di fare piena luce sul delitto della deputata, la famiglia della sinistra europea troverà al suo interno gli anticorpi democratici e la forza per reagire a questo lutto", dichiara il segretario di Possibile, Pippo Civati.

"Incredulo e attonito per la notizia dell'uccisione di jo cox, deputata laburista inglese. Gruppo Forza Italia Camera vicino a famiglia e a popolo britannico", scrive su Twitter Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia.

Edited by Rotwang

Se non ci fossimo dentro noi, la Spagna, il Portogallo, la Grecia e l'est Europa sono convinto che gli inglesi sarebbero tra i più europeisti. Sono molto incazzati di dare molto di più di quanto ricevono in cambio, anche la Svezia, la Danimarca e l'Olanda stanno andando sulla stessa linea.

 

Il problema è che se si dissolve l'UE l'Italia ci rimette, ricevendo molti più fondi rispetto a quello che diamo, l'est Europa tornerebbe in poco tempo ai livelli dei primissimi anni post caduta del muro...

Gli Stati Uniti l'unione commerciale l'hanno fatta con Canada e Messico (North America Free Trade Association), non sono certo andati a tirarsi dentro il Brasile, il Venezuela e la Bolivia...

Sono molto incazzati di dare molto di più di quanto ricevono in cambio

 

Che gli Inglesi siano capaci di pensare qualcosa di simile è probabile

 

Questo non significa sia vero, però. Anzi dal 1973 in poi la storia dei

rapporti fra Gran Bretagna e CEE, poi UE è contrassegnata da una serie

di accordi in deroga a favore della Gran Bretagna

Internazionale

 

Igiada Scego

 

Le serie tv sono un buon modo per analizzare il mondo. Spesso colgono in anticipo alcune dinamiche in atto nella società.

 

Anni fa, quando arrivò la serie Sex and the city, tutti cominciarono a parlare di femminismo 2.0, di libertà sessuale, di indipendenza delle donne. I rotocalchi iniziarono a sdoganare argomenti fino a quel momento tabù come i sex toys o le posizioni erotiche. E a tutti quella serie sembrò il non plus ultra della libertà occidentale. Samantha (sì, soprattutto Samantha), Carrie, Miranda e Charlotte erano le paladine di un nuovo modo di essere donna. Io ho guardato la serie più di una volta, so a memoria intere puntate. Vabbè, quasi a memoria.

 

Mi fa ridere ancora tantissimo quella in cui Charlotte si rintana in casa con il suo vibratore a forma di coniglio. Ma pur divertendomi molto, sono consapevole dell’impianto classista della serie, un impianto legato a doppio filo con quella New York della finanza che ha gettato in bancarotta mezzo mondo. Infatti, prima di andare a letto con un uomo Carrie, Miranda, Charlotte e perfino Samantha devono sapere quanto guadagna e soprattutto dove abita. Manhattan è ok, già fuori Manhattan è un problema. E se il conto in banca non ha tanti zero, non vale la pena.

 

Ora, dopo tanti anni di serie americane, sono approdata a quelle inglesi. Il merito è stato di Downton Abbey una serie angloamericana che ha avuto un successo clamoroso nel Regno Unito. Le avventure della famiglia Crawley e della sua servitù mi hanno preso completamente. Quella sfrenata e signorile eleganza, quei modi sagaci e puntuti, e poi adoro letteralmente Violet Crawley, contessa madre di Grantham (una fantastica Maggie Smith), con le sue battute micidiali.

 

La cornice in cui si inserisce la serie è quella in cui la Gran Bretagna era sinonimo di prestigio, ricchezza e soprattutto impero, sì, quell’impero dove non tramonta mai il sole. Una serie di fatto nostalgica. Dove “Britannia rules”, la Gran Bretagna comanda, anche se non lo si dice esplicitamente. Una situazione che ricorda quanto scriveva il grande studioso postcoloniale Edward Said, nel libro Cultura e imperialismo, a proposito di Jane Austen e del suo romanzo Mansfield Park,pubblicato per la prima volta nel 1814. Le avventure di Fanny Price e della famiglia Bertram si svolgono nella tenuta di Mansfield Park. Una vita agiata, lussuosa. Una vita che Fanny ammira. In Jane Austen, anche se non si fanno riferimenti espliciti, la colonia è presente: è quella Antigua nominata solo 12 volte nel romanzo. Quell’Antigua da dove arriva il lusso in cui si crogiola la famiglia Bertram (e il resto dell’Inghilterra).

 

Oggi le cose sono decisamente cambiate.

 

Oggi il Regno Unito è un paese piccolo, anche se ha come capitale Londra, centro della finanza globale (e come ha ricordato di recente Roberto Saviano, centro anche di traffici globali), quasi una città-stato (ricca) dentro lo stato (povero).

 

Il gioiello della corona

Ma proprio per la “piccolezza” di oggi, al Regno Unito quel passato sembra ancora più affascinante. Ed ecco che quello che era solo velato in Downton Abbey diventa esplicito in Indian summers, la cui prima stagione è andata in onda su Channel 4 nel 2015. In questa serie si va dritti al cuore di quell’impero di trentacinque milioni di chilometri quadrati che si stendeva su cinque continenti. E il cuore è il gioiello della corona, l’India dai mille tesori, la cassaforte della Gran Bretagna, quella che ha permesso a un’isola di librarsi oltre le sue possibilità e che l’ha salvata dal tracollo svariate volte. Senza l’India forse la Gran Bretagna non si sarebbe salvata dalla furia di Adolf Hitler, tanto per fare un esempio.

 

Ed è l’impero in una fase già terminale a essere il centro di Indian summers. I personaggi si muovono su un palcoscenico dove, da una parte, quell’impero sembra poter durare per sempre e, dall’altra, si assiste ai primi segnali del movimento di liberazione che porterà gli indiani all’indipendenza. Siamo nel 1932, a Simla, località indiana ai piedi dell’Himalaya, ci sono due famiglie i Whelan e i Dalal. Al centro della scena Cynthia Coffin (Julie Walters), proprietaria del Simla club, un circolo esclusivo dove l’impero si mostra in tutto il suo splendore come un pavone. Erano gli anni in cui nei club non era permessa l’entrata ai cani e agli indiani. Accanto a Cynthia, c’è Ralph Whelan (Henry Lloyd-Hughes), scisso tra quell’impero a cui dà corpo come funzionario coloniale e quell’India che di fatto è la sua vera patria, visto che ha vissuto più lì che in Inghilterra.

 

A condividere il palcoscenico ci sono gli indiani, i già citati Dalal, che da una parte preparano la lotta per l’indipendenza e dall’altra non sanno come recidere i nodi di ambiguità che li legano al potere coloniale. La serie usa lo sfondo storico per ambientare le relazioni tra i vari personaggi, relazioni di potere, di amore, di possesso, senza andare veramente a fondo. Ma tra abiti eleganti, gare di polo, arredamento coloniale e natura selvaggia tutto solletica quella nostalgia per l’impero che sembra attraversare la Gran Bretagna alla vigilia del voto per la Brexit.

 

Il clima nostalgico è percepibile non solo in tv, ma un po’ ovunque nel paese. Basti pensare all’evento che a maggio dell’anno scorso ha fatto gridare allo scandalo gli studenti di Oxford. La Oxford union, una associazione di fama mondiale, ai cui dibattiti intervengono spesso grandi personalità, è stata accusata di razzismo. Doveva ospitare un incontro molto serio sulle cosiddette riparazioni, ovvero si doveva discutere se il Regno Unito dovesse o meno ripagare le sue ex colonie per il passato di sfruttamento.

 

Alla tavola rotonda erano stati chiamati a intervenire l’ex deputato conservatore sir Richard Ottaway, il politico indiano Shashi Tharoor e lo storico John Mackenzie. Il problema è nato da un cocktail. Prima del dibattito è circolata un’immagine che raffigurava due mani nere incatenate e che serviva a pubblicizzare un cocktail dal nome evocativo, “The colonial comeback” (il ritorno della colonia), a base di limonata, liquore alla pesca e brandy, al costo eccezionale di 2,50 sterline invece delle solite 3,33.

 

Naturalmente si è scatenato il finimondo. Gli studenti, soprattutto quelli appartenenti a minoranze, si sono indignati e hanno riempito il web di tweet al vetriolo in cui condannavano come inaccettabile il fatto che secoli di immondo sfruttamento venivano liquidati senza rispetto con un cocktail. E, non a caso, la Oxford union è stata accusata di essere ancora la casa dei privilegi.

 

Dagli abiti in stile La mia Africa ai ristoranti della catena Dishoom che ricordano la Bombay degli anni trenta, in puro stile coloniale (ristoranti che per la qualità e il prezzo sono stati considerati tra i migliori in Gran Bretagna), tutto odora di impero.

 

In un recente sondaggio di YouGov Uk il 59 per cento del campione preso in esame ha dichiarato che l’impero è qualcosa di cui andare orgogliosi, mentre solo il 19 per cento si vergogna di quel passato di soprusi. Il 34 per cento degli intervistati è invece favorevole a una Gran Bretagna di nuovo imperiale.

 

La campagna per la Brexit

Questa nostalgia si ritrova soprattutto in politica.

 

Un esempio per tutti, la presa di posizione nazionalista e imperialissima di Boris Johnson, ex sindaco di Londra e tra i fautori più agguerriti della Brexit, nei confronti del presidente statunitense Barack Obama. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione della Casa Bianca di rimuovere un busto di Winston Churchill dalla stanza ovale. Sul Sun di Rudolph Murdoch, Boris Johnson ha dipinto Obama come un mezzo keniano invidioso, che trama contro l’impero britannico e contro la memoria del Churchill nazionale.

 

Un linguaggio, quello dell’ex sindaco di Londra, che è stato subito dichiarato inopportuno e razzista.

 

Ma il linguaggio si fa atmosfera. E non si respira una bella aria nel paese.

 

Nella campagna per la Brexit, una delle più xenofobe mai viste in Gran Bretagna, si è attinto a piene mani proprio dall’immaginario coloniale. Ed ecco apparire la vignetta di Ben Garrison che riassume in modo brutale tutti i cavalli di battaglia dei sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. La vignetta si intitola Abandon ship, e ad abbandonare la nave sono naturalmente gli inglesi, con una scialuppa di salvataggio che li porta verso il sole.

 

Scappano dall’Europa, che è ritratta da Garrison come una barca che corre verso il precipizio, comandata da una Frau Merkel inviperita e piuttosto disperata. Sulla nave succede di tutto. La Grecia vomita, la “diversità” bombarda i burocrati di Bruxelles facendo un bel buco sullo scafo. Onde minacciose, le onde dell’immigrazione, e il tornado della crisi economica minacciano la nave. Inoltre dei pirati inturbantati attaccano l’imbarcazione Europa e la minacciano in vari modi: da una parte c’è un uomo con il turbante (arabo per il vignettista) con un sacco di denaro in mano pronto a comprarsi tutto, dall’altro un secondo uomo con il turbante minaccia una sirena molestandola con le sue voglie lussuriose, mentre il terzo inturbantato manda a morire un uomo biondo e tremante, la Svezia, gettandolo in pasto a uno squalo che simboleggia il politicamente corretto.

 

Andrew Brown sul Guardian ha paragonato questa vignetta a quelle che circolavano nella Germania nazista. Dove ieri c’era l’ebreo oggi c’è l’arabo (ma anche l’ebreo), perché islamofobia e antisemitismo sono figli della stessa madre razzista.

 

Altrettanto inquietanti sono le parole dei politici che ancora sognano il “Britannia rules”, spesso autoasselvondosi dal dolore causato alle popolazioni conquistate. Il parlamentare conservatore Liam Fox, per esempio, ha detto candidamente che il suo paese non ha nulla da dimenticare, perché nulla fu. Cancellando completamente secoli di storia, cancellando il colonialismo e il dolore procurato. Ed ecco che personaggi come Francis Drake o David Livingstone risorgono dalle loro ceneri e vengono di nuovi citati e incensati.

 

Ma se da una parte questa nostalgia dell’impero pervade tutto, dalla tv ai ristoranti, c’è chi resiste, e lo fa a modo suo.

 

Il movimento Rhodes must fall ha preso di mira il più colonialista tra i colonialisti, Cecil Rhodes, a cui l’impero aveva dedicato anche uno stato, la Rhodesia (gli attuali Zambia e Zimbabwe), l’uomo che si era fatto una fortuna sfruttando le ricchezze dell’Africa, soprattutto i diamanti, autore della celebre frase (quintessenza della razzia coloniale): “Tutte quelle stelle… quegli immensi mondi che restano fuori dalla nostra portata. Se potessi, annetterei altri pianeti”. Mark Twain diceva di lui che era il vice di Dio, ma anche di Satana. Rhodes era un personaggio senza scrupoli. Aveva venduto l’anima per sviluppare e far espandere il suo impero minerario. Era amico dei potenti, dalla regina Vittoria ai Rothschild, e capace di sfruttare le sue aderenze per arricchirsi sempre di più.

 

Ora quell’uomo – anzi la sua statua – è stato preso di mira. Il 9 marzo del 2015 uno studente e attivista sudafricano di nome Chumani Maxwele ha lanciato degli escrementi contro la statua di Cecil Rhodes, opera di Marion Walgate, che dal 1934 domina una piazza dell’università di Cape Town. Da questo gesto è nata l’idea di un sit in permanente degli studenti per chiedere al rettore e agli organi dell’università non solo di rimuovere la statua, ma anche di decolonizzare il sistema universitario, un sistema in cui l’apartheid non è affatto morto, dove l’accesso è difficile per gli studenti neri e dove il corpo docente è solo in parte formato da neri. Dopo varie proteste la statua è stata rimossa il 9 aprile del 2015. Ma da quel momento il movimento è diventato internazionale.

 

La retorica dell’invasione

Anche a Oxford gli studenti che aderiscono a Rhodes must fall hanno chiesto la rimozione di una statua di Cecil Rhodes. Ed è significativo che questo sia successo proprio nell’università dove si formavano i quadri coloniali e che ora è dominata da barriere reali per le minoranze. A Oxford sono state fatte marce per la decolonizzazione e per le pari opportunità. Il movimento Rhodes must fall ha ovviamente anche i suoi detrattori. Chi lo critica punta il dito sull’ansia di demolizione, alcuni lo hanno accusato di essere come il gruppo Stato islamico a Palmira, mentre altri ne hanno condannato il settarismo.

 

Ma Rhodes must fall, che ci piaccia o no, solleva una questione, quella delle cosiddette minoranze, che nella Gran Bretagna nostalgica dell’impero è sempre più evidente. “Britain first”, urlano i sostenitori della Brexit. Ma quel “Britain”, diventato grido identitario, ha armato la mano di un uomo, Tommy Mair, legato a gruppi neonazisti, che ha ucciso pochi giorni fa la deputata laburista Jo Cox. Il grido di Mair è stato alimentato dalle tante parole di odio di questi tempi, e soprattutto da quelle indirizzate ai migranti, visti come unici responsabili del disorientamento culturale. Figure volutamente destoricizzate, come nel manifesto del leader del partito nazionalista Ukip, Nigel Farage, in cui sotto la scritta “Breaking point” (Punto di rottura) si vede una lunga colonna di migranti che avanza, pronta a minacciare i sogni dei britannici. Ed ecco che la retorica dell’invasione torna sul palcoscenico.

 

L’assassino di Jo Cox era imbevuto di questa propaganda, dove il lessico coloniale di un tempo diventa il lessico culturalista e divisivo di oggi, diventa “questi islamici non hanno la nostra cultura” e alimenta paure e incertezze. Parole che spesso diventano violenza e possono spezzare una vita, come quella di Jo Cox appunto, una morte che la scrittrice italiana Helena Janeczek ha definito femminicidio politico in un suo post su Facebook.

 

L’impero e il senso di nostalgia coloniale dominano il paesaggio, non solo nel Regno Unito, ma nell’intero continente. Se vogliamo salvarci da questo caos dovremo immaginare una volta per tutte un’identità europea moderna multiculturale e interconnessa, dove tutti possano avere uguali diritti e uguali doveri.

 

L’impero britannico non c’è più, per fortuna. Sta a noi, nel Regno Unito e nel resto d’Europa, creare un futuro di condivisione e di bellezza. Un futuro dove le generazioni future possano essere felici.

Edited by Rotwang

La Stampa

Non succedeva da quasi mezzo secolo, un premier britannico nell’ultima colonia d’Europa. La visita di David Cameron a Gibilterra è stato un evento storico, prima di lui soltanto Harold Wilson nel 1967 (ma non aveva messo piedi a terra, limitandosi a un incontro su una portaerei) e prima di lui Winston Churchill durante la seconda guerra mondiale (dopo aver ordinato l’importazione di centinaia di scimmie, che ancora oggi popolano la Rocca).


Un fatto inedito, quindi, da quando la frontiera con la Spagna è stata riaperta, nel 1985, ma gli eventi sono eccezionali: Brexit sarebbe un disastro politico ed economico per il piccolo possedimento nel cuore dell’Andalusia. I traffici, messi pesantemente in discussione da parte spagnola, verrebbero ostacolati con la chiusura del confine e con la formazione di una dogana ben più rigida di quella di oggi. Difficoltà immani si prevedono anche per i 30 mila frontalieri provenienti da una delle zone a più alto tasso di disoccupazione (la provincia di Cadice) che ogni giorno attraversano il confine per andare lavorare a Gibilterra. Insomma, la paura da queste parti è tanta e gli elettori (pur se tradizionalisti) voteranno compatti per la permanenza nell’Ue. 

LA RABBIA SPAGNOLA 
Non è un caso, quindi, che nella sua campagna elettorale Cameron sia volato fino a qui, prendendo il rischio di irritare gli spagnoli, che giudicano un “anacronismo coloniale” questo possedimento. La gita di Cameron non è andata bene, ma Gibilterra non c’entra: appena arrivato al piccolo aeroporto della Rocca, il premier inglese è stato avvertito dell’aggressione alla deputata laburista Jo Cox, una tragedia che ha costretto gli organizzatori a sospendere le storiche cerimonie, ripiegando su una riunione con i politici locali senza troppa enfasi in un albergo. Al di là della drammatica coincidenza, la Spagna, pur nettamente contraria alla Brexit, si è seccata: «Una visita straordinariamente inopportuna», gli ha mandato il ministro degli esteri di Madrid José Manuel García-Margallo, uno mai tenero con “la colonia”. Anche il premier Mariano Rajoy ha criticato gli alleati inglesi, reiterando il motto di sempre: «Gibilterra spagnola». 

I PIANI DI MADRID
Dietro alle schermaglie burocratiche (il governo si è nuovamente rivolto anche all’Onu), la Spagna starebbe preparando un piano: in caso di vittoria della Brexit Gibilterra potrebbe tornare sotto l’orbita di Madrid attraverso una “sovranità condivisa”, una formula a oggi molto vaga, già discussa a suo tempo in un negoziato tra Tony Blair e José Maria Aznar. Sulla Rocca la prospettiva fa paura:«Se perdiamo il referendum la Spagna ci aggredisce», dice il premier Fabian Picardo.

Edited by Rotwang
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