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Chi s'è arreso alle armate del Papa


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Chi s'è arreso alle armate del Papa

 

 

MICHELE AINIS per La Stampa

 

Cadono gli anniversari: l’11 febbraio, 80 anni dal vecchio Concordato, siglato da Mussolini; il 18 febbraio, 25 anni dal nuovo Concordato, quello con la firma di Craxi. Ma cade inoltre, dalla memoria collettiva, il ricordo delle scelte che li accompagnarono, che li resero possibili. Cade la percezione d’un clima nei rapporti fra Italia e Vaticano che oggi non sapremmo neanche immaginare. Altri uomini, altre regole. Ecco perché il documento pubblicato lunedì su questo giornale è un bene prezioso: ci aiuta a ricordare, al contempo ci dimostra che c’è stata una Chiesa rispettosa delle nostre istituzioni. E se c’è stata, può esserci di nuovo. Dipende dalle autorità religiose, ma soprattutto dalle autorità politiche della Repubblica italiana. Quel documento è una nota riservata del vescovo Riva, indirizzata a Moro nel gennaio 1976. Quindi 8 anni prima degli accordi di Villa Madama, ma la nota già ne anticipa il contenuto più essenziale. A partire dall’affermazione secondo cui la Chiesa «si sottopone alle leggi dello Stato».

 

La stessa affermazione, tradotta in norma vincolante, che apre il nuovo Concordato, dove la Santa Sede s’impegna al «pieno rispetto» della sovranità statale. Ma in quella nota c’è di più: una doppia ammissione che a leggerla adesso ti fa saltare sulla sedia. Perché c’è scritto che le gerarchie ecclesiastiche non reclamano privilegi dallo Stato italiano. Perché vi si mette a nudo la ferita più bruciante, che all’epoca fu inflitta dalla legge sul divorzio. L’emissario di Paolo VI continua a dolersi per la legislazione divorzista; ma aggiunge che la Santa Sede «non si propone di insistere in una richiesta pregiudiziale del ristabilimento della situazione quo ante». Insomma pazienza per la sacralità della famiglia, quantomeno allora era più forte la sacralità dello Stato. Come ha potuto rovesciarsi questo atteggiamento? Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie (titolo di Le Monde) sul suolo italiano? Da dove nasce l’intransigenza, e insieme la prepotenza sfoderata attorno al caso Englaro? Semplice: da un doppio referendum. Quello che nel 1974 la Chiesa ha perso sul divorzio; quello che nel 2005 ha vinto sulla procreazione assistita. Ma se è questa la lezione della storia, significa che lo spazio della Chiesa nella nostra vita pubblica dipende principalmente da noi stessi. È uno spazio politico, e la politica ha orrore del vuoto. Se il trono rimane vacante, al suo posto sorgerà un altare. Se gli elettori pensano che la laicità sia questione da filosofi, la filosofia imperante sarà quella religiosa. Se i politici italiani sono libertini in privato ma genuflessi in pubblico, perché la Chiesa dovrebbe fare un passo indietro? C’è almeno un tratto di continuità fra l’arrendevolezza vaticana sul divorzio e l’inflessibilità sul testamento biologico: il pragmatismo, virtù molto terrena che sa adattarsi ai tempi, cogliendo l’opportunità del giorno dopo. Tutto l’opposto del rigore dottrinale, della parola scolpita sulla Bibbia. Eppure non è che lo Stato italiano si sia del tutto arreso alle armate vaticane. O meglio si è arreso il governo, si è arreso il Parlamento. Tuttavia di tanto in tanto resiste qualche giudice.

 

La Cassazione ha riconosciuto il buon diritto di Beppino Englaro. Successivamente la Consulta ha riconosciuto il buon diritto della Cassazione. E sempre la Suprema Corte questa settimana ha assolto il magistrato Tosti, che rifiutò di tenere udienza davanti al crocefisso, in nome della laicità della Repubblica. Evidentemente ai nostri giudici difetta il pragmatismo. michele.ainis@uniroma3.it

 

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Sottoscrivo a pieno questo articolo.

 

In 30 anni i ruoli si sono ribaltati. Io non credo che gli italiani siano diversi da allora. Semplicemente allora si parlava di diritti che riguardavano una maggioranza, ora si combatte per i diritti delle minoranze (o comunque di casi limite). Certo non è una cosa che ci qualifichi bene umanamente.

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